Yom Kippur, il giorno dell’espiazione
La città è deserta, silenziosa, spettrale. Si ferma Tel Aviv, la capitale secolare dello Stato di Israele, la New York del Medio Oriente. Con essa, anche il resto del paese, dal Deserto del Negev al Monte Hermon, dal Mar Mediterraneo a Gerusalemme. È lo Yom Kippur, il giorno più sacro e solenne della religione ebraica.
Immaginati a Tel Aviv, la più laica e trasgressiva città israeliana. Sono quasi le cinque del pomeriggio di un giorno d’Ottobre e cammini per una strada qualsiasi.
Il sole sta per incontrare l’orizzonte del Mediterraneo e l’aria, non più afosa come nelle ore più calde, rende appiccicaticcia la tua pelle. Tutt''attorno grattacieli sgargianti graffiano il cielo, case Bauhaus ritinteggiate di bianco mostrano con seduzione le loro linee architettoniche e caseggiati affatto solidi ti ricordano la fretta con cui è stato costruito il paese.
Intasate da automobili avvezze all’uso del clacson, le strade puzzano di petrolio bruciato e mostrano tutte le tonalità di nero e grigio. I marciapiedi traboccano di pedoni all’apparenza distratti, di ciclisti irremovibili e fattorini con la merce da consegnare.
I negozi sono aperti e adescano clienti con il trucco più antico del Medio Oriente, lasciando le porte aperte per far sentire ai passanti la frescura dell’aria condizionata.
Sul ciglio della strada decine di persone aspettano l’autobus. Sono donne incinte, ragazzi dai capelli lunghi, bambini, soldati armati di AK-47. Autobus di ogni colore li prelevano a decine per volta, stantuffando in aria corposi fumi di colore nero.
Ti siedi in una panchina per qualche minuto e ben presto ti accorgi un cambiamento generale, come se la città fosse in metamorfosi. Dai un’occhiata all’orologio da polso: mancano dieci minuti alle cinque. Non lo sai, ma esattamente in questo momento un rappresentante dell’autorità rabbinica a Gerusalemme ordina di far suonare lo Shofar, il tipico corno cerimoniale ebraico.
Il suono grave dello strumento riecheggia per tutta la città vecchia di Gerusalemme, dal Muro del Pianto al Santo Sepolcro, dalla Spianata delle Moschee al Monte degli Ulivi. Quello è il segnale, l’inizio dello Yom Kippur, il giorno più sacro e solenne per la religione ebraica.
Ti guardi attorno e noti che qualcosa è cambiato davvero. Spente luci, musica e aria condizionata, i commercianti stanno per chiudere le porte dei negozi e tornare a casa.
Ai semafori non c’è più traffico. Le automobili sono diventate rarissime. Ne passa qualcuna a rallentatore, come se non volesse disturbare. Una donna cammina a passo svelto. La città è muta e tu non senti più nulla, né una suoneria telefonica, né una canzone, un clacson, nemmeno il rumore dei condizionatori d’aria. Anche il cielo è muto, non decollano e atterrano più aerei. Tutto è spento, fermo.
Alla stessa fermata degli autobus di prima non c’è più nessuno, un foglio di giornale svolazza svogliatamente in balia della brezza. I marciapiedi sono deserti, ancora caldi dal sole sulla via del tramonto e a tratti bagnati dall’acqua dei condizionatori d’aria oramai spenti.
D’improvviso ti accorgi di essere rimasto solo. La città non urla più, si è fermata; parla solo tramite il fruscio degli alberi, il canto degli uccelli e le onde del Mediterraneo.
Cammini in solitudine, godendo un’assenza generale simile a quella di un coprifuoco in tempi di guerra. Lo Yom Kippur è cominciato; Israele digiuna, medita, prega in casa o in sinagoga.
Yom Kippur è un’espressione ebraica che significa “Giorno dell’espiazione”. “Yom” significa giorno e “Kippur” è l’atto attraverso il quale si chiede il perdono. Ora, visto che fino alla distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme (70 d.C.) il perdono era chiesto anche mediante il sacrificio di animali, e nello specifico di agnelli e capre, ecco che dalla parola Kippur deriva non solo il nome della famiglia animale dei caprini e della più conosciuta capra, ma anche la nota espressione “capro espiatorio”. Prima del sacrificio, infatti, all'animale venivano caricati tutti i peccati del popolo.
Lo Yom Kippur commemora la discesa di Mosè dal Monte Sinai e la seconda redazione delle tavole della legge, I Dieci Comandamenti, il patto scritto tra Dio e gli uomini.
Secondo la tradizione ebraica questo è il giorno dell’anno in cui Dio tira le somme sul comportamento di ognuno. Come una confessione, i fedeli ebrei ripensano alle proprie azioni e, tramite una lunga serie di preghiere, si rivolgono a Dio per chiedere l’espiazione dei propri peccati.
C’è di più, confessione e pentimento non rimangono nel campo astratto del proprio rapporto con Dio, ma diventano un’azione umana tra umani. La tradizione ebraica, infatti, chiede ai fedeli di recarsi fisicamente dalla persona che ritengono di aver danneggiato durante l’anno appena trascorso, e chiedere scusa promettendo un rapporto più sereno.
Per essere perdonati da Dio ed essere iscritti nel c.d. Libro della Vita – ovvero il libro che, secondo i testi biblici ebraici, annovera i nomi delle anime pure – è necessario scusarsi per gli eventuali torti arrecati ad altri e astenersi dal cibo e dal bere, dai rapporti sessuali e da ogni tipo di lavoro manuale.
Nonostante la laicità di buona parte degli israeliani di fede ebraica, lo Yom Kippur ha un seguito straordinario. La maggioranza dei fedeli digiuna, tutti si astengono dal lavoro e dall’utilizzo delle automobili e di qualsiasi strumento elettrico, dal citofono al cellulare. Molti si vestono di bianco, a simboleggiare la purezza dell’anima e quindi la sperata iscrizione del proprio nome sul Libro della Vita.
Se il Kippur ha la forza di portare in sinagoga ebrei non praticanti e non credenti, il motivo sta nella commistione tutta ebraica tra identità culturale, fede e sentimento nazionale.
Secondo alcuni il giorno è sacro e solenne a tal punto da rendere lo Stato israeliano vulnerabile in caso di attacco militare – proprio come accaduto nel 1973, quando, per la prima volta dalla sua nascita, Israele ebbe paura per la propria esistenza a causa di un attacco simultaneo effettuato dall’Egitto di Sadat e dalla Siria di Assad nella notte del Kippur.
“Durante il Kippur non ci sono notizie. Le televisioni e le radio non trasmettono, i siti web non vengono aggiornati e i giornali non vanno in stampa. Per venticinque ore l’assenza di notizie e il numero limitato di soldati ci rendono vulnerabili ad eventuali aggressioni”, afferma Elisha, un israeliano di quarant’anni.
A Kippur inoltrato la città subisce una seconda rapida trasformazione. Le sinagoghe si riempiono di fedeli, e le strade, le autostrade e i ponti sono invasi da bambini in bicicletta, ragazzi in skateboard e rollerblade, giovani coppie innamorate e anziani con il cane al guinzaglio.
Kippur significa staccare dalla vita quotidiana e analizzare il proprio rapporto con se stessi, con gli altri, con Dio. Ogni città, ogni villaggio israeliano lo fa a proprio modo. Tel Aviv regala i propri spazi agli abitanti, Gerusalemme punta sulle preghiere collettive, mentre gli abitanti delle città secondarie e dei villaggi più piccoli si rinchiudono tra le mura domestiche o tra quelle spartane delle sinagoghe.
Le minoranze cristiane e musulmane rispettano la celebrazione ebraica evitando i lavori manuali, la guida delle autovetture, il consumo in pubblico di alimenti e bevande. Il problema è altrove. È in Cisgiordania, dove gruppi di coloni israeliani acciecati dall’oltranzismo religioso, chiedono a colpi di pietre che la maggioranza palestinese rispetti le tradizioni ebraiche. Ma questa è un’altra storia.
Allo scadere delle venticinque ore il paese si risveglia. Tutto sembra come prima. Le macchine sfrecciano sulle autostrade, le televisioni e le radio tornano a trasmettere, riaprono i negozi e le città ritornano al caos di sempre. Eppure, qualcosa è cambiato, la gente è più serena, più libera, nuovamente pronta ad amare e odiare, a fare la cosa giusta e quella sbagliata proprio come qualsiasi altro popolo della Terra.
Alessandro Di Maio
Tel Aviv, Israele
Yom Kippur, 7/8 Ottobre 2011