USA 2008, la crisi dell’auto
Parcheggiati sotto gli occhi rossi del grande obelisco bianco, un cospicuo numero di furgoncini esponeva souvenir americani di ogni tipo. A gestire le bancarelle erano per lo più asiatici, donne e uomini minuti seduti sui sedili anteriori intenti a muovere le dita sul bordo esterno della portiera al ritmo della musica gracchiata dallo stereo.
Tra le bandiere a stelle e strisce, le macchine fotografiche usa e getta e le statuette di Abraham Lincoln e George Washington, vendevano magliette e tazze in porcellana con i volti di Barack Obama e Hillary Clinton con la stessa nonchalance con cui in Russia si vendono le matrioska con i volti di vecchi zar e dittatori.
Il sole era basso ed il cielo, che da un lato si scuriva, dall’altro sfoggiava tonalità da tramonto che insieme al vento proveniente da ovest invogliava a sedersi sul prato dell’Ellipse a guardare il traffico. Grosse automobili scorrevano sulle strade graffiate dai residui liquidi scaricati dalla marmitte che hanno sempre garantito il sogno americano: mettersi sempre in viaggio e in discussione, lungo e largo il pezzo di continente americano chiamato Stati Uniti.
Spostarsi, muoversi, migliorare la propria posizione, ricercare e trovare la propria felicità. Gli americani l’hanno sempre fatto, soprattutto verso ovest, prima al seguito del proprio bestiame in cerca di fertili praterie prive d’Indiani, poi con carovane e ferrovie alla ricerca dell’oro nascosto nella sabbia dei fiumi o nel ventre di montagne alberate.
Oggi come allora gli statunitensi continuano a spostarsi cambiando casa, quartiere, città, Stato. Lo fanno tanto frequentemente da saturare la friend list della propria pagina Facebook, e da spendere migliaia di dollari per alimentare i Suv, le automobili di grande cilindrata che consumano benzina in quantità industriali.
Tuttavia il west non è più la parola magica, gli Stati Uniti sono in crisi e pur di viaggiare non si comprano più Suv. Negli USA queste autovetture sono considerate più di una moda, ma un modo di vivere, una filosofia di vita dettata dal petrolio a basso costo e dalle rassicurazioni governative su quello che il resto del mondo chiama “riscaldamento globale”.
Negli Stati Uniti il sogno delle macchine grandi e potenti è in forte declino e sono in calo le richieste di fuoristrada e Suv, in quanto la crisi fa apprezzare anche le piccole vetture, in passato considerate mediocri e incapaci di soddisfare i desideri dei consumatori.
“Prima la benzina nei distributori era disponibile a 1 dollaro al gallone. Ora il prezzo è salito fino a 4 dollari e ciò comporta che - secondo uno studio del Cambridge Energy Research Associates - gli americani debbano spendere in carburante non più non più l’1,9% come nel 1998, ma il 4% dei loro guadagni lordi”.
Dal 2003 al 2008 le vendite di Suv negli Stati Uniti sono calate del 50%, un dato che mostra la piena crisi delle principali aziende automobilistiche statunitensi: General Motors e Ford perdevano rispettivamente il 30% e il 19% nel mese di maggio 2008 e un ulteriore 18 e 28% in più pochi mesi dopo (come si vede nel grafico sottostante).
Le contromisure dell’azienda di Detroit, come quelle di tutta l’industria automobilistica americana, sono state le più semplici, pericolose e tradizionali: il taglio dei costi tramite il licenziamento di migliaia di lavoratori e la chiusura di decine di stabilimenti produttivi.
Ciò è testimonianza chiara dell’incapacità dell’intero settore ad adattarsi alle nuove esigenze dei consumatori. Benché le cifre relative alle vetture di dimensioni ridotte fossero le uniche in crescita (2.8 milioni di veicoli venduti nel 2007), General Motors, Ford e Chrysler preferirono evitare o limitare gli investimenti necessari per modificare la propria produzione e spostarla verso modelli a minor consumo.
Ciò rafforzò le compagnie automobilistiche asiatiche, basate su una produzione diversificata trainata dalle piccole autovetture e dalla velocità di adattamento alle mutate condizioni del mercato. La giapponese Toyota ne è un esempio: se nel 2007 le sue vendite in America sorpassarono quelle della GM, nel 2008 aprì impianti di produzione nelle città dove quelli delle compagnie americane venivano chiusi.
In quel momento Washington, capitale in guerra, aspettava il ritorno trionfale delle truppe, ma in Iraq il vento era ostile, i soldati tornavano nelle bare e il prezzo del petrolio continua a salire. Ciò danneggiava l’immagine del paese, danneggiava un’economia di prodotti fabbricati in Cina e servizi nazionali sempre più di scarsa qualità.
Washington, centro politico di un paese in odore di elezioni, mi sembrò discreta, quieta, pacifica, sterile, abitata e percorsa da uomini con il badge penzolante al collo. Washington mi apparve poco interessata alle campagne elettorali in corso, poco interessata alla possibile elezione a presidente di un afro-americano o di una donna.
Washington non mi sembrò nulla in confronto alla “febbricitante Washington di due secoli prima, quando la si costruiva espropriando le paludi e costruendo gli edifici che oggi potrebbero essere definiti palazzi d’inverno”.
Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008
Il testo contnuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 23 Dicembre 2008