The United States Holocaust Memorial Museum
Secondo la tesi ufficiale rilasciata dalle autorità statunitensi, i diciannove uomini affiliati all’organizzazione terroristica Al-Qā‘ida che l’11 Settembre del 2001 dirottarono quattro voli civili commerciali, programmarono il loro piano terroristico in modo tale da colpire le tre colonne portanti della forza degli Stati Uniti d’America nel mondo: il potere economico-finanziario, quello militare e quello politico.
Per questo motivo, se per trafiggere il simbolo del commercio mondiale e il centro del potere militare, i terroristi schiantarono due aerei sulle torri del World Trade Center di New York City e uno sul Pentagono, l’ultimo aereo dirottato - esattamente il Boeing 757 della United Airlines – avrebbe dovuto colpire la sede centrale delle decisioni politiche americane, quindi la Casa Bianca o il Campidoglio, a Washington D.C., salvate - pare - da una possibile rivolta a bordo ch avrebbe fatto schiantare l’aereo in un campo incolto poco fuori la cittadina di Shanksville, in Pennsylvania.
Pensai a ciò con il fine di decidere se nel 2001 Washington D.C. fosse davvero il centro politico statunitense e se lo fosse anche in quel momento. Il paese si trovava nel bel mezzo del lungo processo democratico che avrebbe eletto il sostituto di George W. Bush Junior alla Casa Bianca.
Mettevo in dubbio la politicità della capitale degli Stati Uniti sia perché convinto del surclassamento avviato dal potere economico-finanziario ai danni della politica già negli anni Ottanta, sia perché attorniato da governi con spazi di manovra sempre più ridotti perché “è l’economia e non più la politica a decidere sulla tua vita”.
Ma Washington si regge sul suo essere capitale e cuore burocratico del paese e le sue persone sembrano distinguersi in tre categorie: gli impiegati di qualche organizzazione o istituto, i turisti, gli Afro-Americani, etnicamente rappresentati dal sindaco Adrian Fenty ma emarginati geograficamente nella periferia nord-orientale della città e socialmente dal resto della popolazione. L’edilizia, gli spazi aperti, i numerosi musei, i monumenti e la toponomastica fitta di nomi importanti ma complessa da capire fanno il resto di una capitale.
Giunto quasi al punto di intersezione tra le due rette immaginarie che compongono il National Mall, vidi l’insegna de United States Holocaust Memorial Museum (USHMM), il Museo che gli Stati Uniti hanno voluto costruire per ricordare l’Olocausto e - come scritto sul sito internet - “per stimolare politici e cittadini a prevenire i genocidi, promuovere la dignità umana e affermare la democrazia”.
Su pressione della Commissione sull’Olocausto voluta dal presidente Jimmy Carter nel 1979, nel 1980 il Congresso degli Stati Uniti votò a favore di un provvedimento che dava avvio ai lavori per l’edificazione di un museo sulla Shoa, che fosse anche memoriale e centro di studi.
La costruzione durò parecchi anni e giunse al termine il 22 Aprile 1993, quando l’edificio venne inaugurato. Da allora il museo, situato tra i monumenti alla libertà e alla democrazia che punteggiano il National Mall, ha ricevuto più di trenta milioni di visitatori, ”cercando – continua la descrizione sul sito web - d’impartire una lezione sulla fragilità della libertà e sulla necessità di vigilare e salvaguardare i valori democratici”.
“Vengo a Washington e visito il museo sulla Shoa?”, pensai tra me. Alla fine entrai dall’ingresso Raoul Wallemberg SW St. All’ingresso incontrai Rose, una delle volontarie di terza età assunte dal museo. E’ vestita con un maglione grigio cui è attaccata una spilla con la Stella di David. “Ci teniamo in forma cercando di combattere l’età che inesorabile avanza – ammette muovendo la testa e facendo scintillare i capelli assolutamente bianchi – ma facciamo del bene alla società, aiutando a far funzionare una macchina (il museo) che ha lo scopo di ricordare ai giovani che la libertà e la democrazia sono in perenne pericolo. E’ anche per questo che l’ingresso è gratuito”.
Mi parlò di Wallemberg, l’uomo a cui è dedicata la strada dell’ingresso. “Fu un giovane diplomatico svedese che durante le deportazioni degli ebrei d’Ungheria, salvò centinaia di migliaia di persone concedendo loro dei passaporti svedesi o dei salvacondotti della Croce Rossa”.
“Tu da dove vieni?”, mi domandò.
“Italia”.
“Bene, Wallemberg fece la stessa cosa di Giorgio Perlasca, un tuo connazionale. I due lavorarono insieme, entrambi rischiarono la vita per salvare una e più vite. E’ per questo oggi i loro nomi sono presenti nella stele dei Giusti tra le Nazioni. Solo che – aggiunse – se Perlasca morì in Italia molti anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Wallemberg scomparve o meglio venne imprigionato dall’Armata Rossa giunta a Budapest per liberare la città dalla presenza nazista, e poi non se ne seppe più nulla”.
Ringraziai Rose per il racconto. Lei prese una spilla a forma di stella ebraica e me la regalò. Ci saltammo.
Prima di salire ai piani alti, dove era stato predisposto l’inizio della visita, era necessario prendere una carta d’identità, un documento cartaceo con la foto, i dati anagrafici e una breve storia di vita di uno dei tanti milioni di ebrei (e non ebrei) rastrellati dalle città europee, concentrati e uccisi nei campi di concentramento nazisti.
Presi la carta d’identità numero #3768, una a caso tra le centinaia di migliaia accatastate accanto all’ascensore. La aprii e vidi la foto in bianco e nero di un signore dai capelli corti, gli occhialini da vista e le grandi orecchie sporgenti. Si chiamava Frederik Polak, da quel momento, fino all’uscita dal museo, mi chiamai Frederik Polak.
Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008
Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexanderplatz Blog il 26 Giugno 2009