Terra Santa, il giornalismo in zone di conflitto
Nel Settembre del 2011, esattamente un anno dopo l’Egira che dalla Sicilia mi aveva portato in Medio Oriente, sotto il sole inclemente della costa mediterranea israeliana, attraversai i cancelli dell’Università di Herzliya, poco a nord di Tel Aviv. Il motivo? La terza edizione di “Media in Conflict Seminar” (MICS), il seminario di giornalismo in zone di conflitto che ogni anno è organizzato in Israele dall’Interdisciplinary Center di Herzliya e dall’European Youth Press.
Due anni prima, nell’agosto del 2009, durante il mio primo viaggio in Terra Santa, avevo preso parte allo stesso seminario nelle vesti di partecipante. Questa volta m’invitavano dalla porta principale, per raccontare a una trentina di giovani reporter provenienti da tutto il mondo, la mia esperienza di giornalista in Medio Oriente e il mio punto di vista sul giornalismo in zone di conflitto. La lectio magistralis che avevo preparato non si discosta molto da quella che l’anno prima avevo tenuto al Parlamento Europeo di Bruxelles in occasione dell’evento “The journalist: an endangered species?”, e visto che sono stati in tanti gli amici e i colleghi che mi hanno chiesto un rimarco, la ripresento in forma ridotta per tutti quelli che seguono il mio blog.
Quando misi per la prima volta piede in Medio Oriente credevo di avere le mani colme di verità sul conflitto israelo-palestinese. Avevo letto qualcosa, seguito i servizi dei telegiornali italiani e guardato qualche documentario. Per me il conflitto era semplice, chiaro: da una parte ci stavano i cattivi, dall’altra i buoni. Credevo che Ramallah fosse un infinito campo profughi e che Gerusalemme fosse una città fortificata circondata dalla sabbia, dove terroristi si facevano saltare in aria e soldati israeliani sparavano a bambini palestinesi armati di sassolini.
A più di due anni da quel viaggio ho imparato tante cose, la più importante delle quali è la più generica: il conflitto israelo-palestinese non è semplice, ma la cosa più complicata che abbia incrociato la mia vita, la situazione più complessa che abbia mai studiato e analizzato. Due anni di vita tra palestinesi e israeliani hanno svuotato le mie mani della verità che credevo conoscere, per lasciarmi in uno stato di osservatore neutrale e rassegnato all’incomprensione. Oggi diffido di chi annuncia di conoscere la verità, perché non c’è una verità assoluta e chi crede di averla non è altro che una pedina nelle mani di uno o dell’altro attore del conflitto.
La percezione di avere la verità in tasca su quanto accade tra il Mar Morto e il Mar Mediterraneo è un elemento comune a molti stranieri. In questi anni, molte tra le conversazioni avute con colleghi giornalisti, diplomatici, attivisti e blogger mi hanno riportato indietro nel tempo, quando anch’io la pensavo come loro, quando anch’io conoscevo il conflitto israelo-palestinese attraverso gli stereotipi mediatici, le falsità partigiane e la superficialità generale.
La complessità del conflitto israelo-palestinese non è rappresentabile nei quotidiani, nei giornali online e nei periodici, figuriamoci nella forma ridotta dei servizi televisivi – per molti unica fonte informativa. Noto con amarezza che i media italiani, e in genere quelli europei, traboccano di strafalcioni quali, ad esempio, errori in buona fede, falsità propagandistiche, superficialità e stereotipi.
Qualsiasi studente sa che un giornalismo libero e di qualità è un elemento indispensabile per un sistema democratico che si può definire tale. Tuttavia il giornalismo non è uno strumento perfetto, ma un fenomeno umano soggetto ai nostri errori: a) il giornalismo può essere limitato da politiche di governo che tendono alla riduzione delle libertà di espressione e stampa; b) esso non può mai essere neutrale perché i giornalisti non sono robot e scrivono e descrivo quello che hanno osservato attraverso i propri sensi; c) il sistema mediatico di oggi si è appiattito molto, sia per la necessaria rapidità degli operatori, che per l’uso spregiudicato delle agenzie di stampa.
Se le limitazioni appena citate sono applicabili a qualsiasi società, paese e situazione, il contesto mediorientale e le peculiarità del conflitto israelo-palestinese mettono sul tavolo ulteriori problematiche, rendendo più arduo il lavoro dei corrispondenti stranieri.
Il conflitto che da quasi un secolo divide ebrei e musulmani e da sessantatré anni contrappone israeliani e palestinesi, è un braccio incancrenito, una serie infinita di tragedie e risentimenti, rivendicazioni e fatti delittuosi, discriminazioni e ingiustizie. Si differisce dalla guerra in senso stretto perché ne è la madre. È un conflitto che odora costantemente di guerra ma che, nonostante periodiche infiammate, rimane a temperatura ambiente.
È il più lungo conflitto della storia moderna ed è seguitissimo dai media e dalla comunità internazionale, non tanto perché contrappone fedi, lingue e culture diverse – questo, in genere, accade in qualsiasi altro conflitto – ma perché i credi sono l’Islam e il Giudaismo, perché le culture sono quella islamica e quella occidentale, perché la terra è considerata Santa da entrambe le fazioni.
È un conflitto particolarmente amato dai media internazionali, dai giovani giornalisti e dagli attivisti assetati d’avventura. La Terra Santa si raggiunge con qualche ora d’aereo dall’Europa e offre tutto il necessario: caotici suq arabi, donne musulmane con il velo, muri e barriere di separazione, graffiti a carattere politico, colonie, ebrei dagli estroversi copricapi, campi profughi, soldati armati di tutto punto e scontri settimanali tra soldati, coloni e palestinesi.
Finite le riprese, terminate le interviste, è possibile svagarsi sulla spiaggia di Tel Aviv in compagnia di un cocktail e ballare in compagnia di donne e uomini bellissimi nelle discoteche e nei club più trasgressivi di tutto il Vicino Oriente. Il conflitto israelo-palestinese è sexy e per molti rappresenta la gavetta necessaria per diventare un giornalista di guerra. Non solo, il conflitto è così amaro e polarizzato che è capace di polarizzare terzi venuti a contatto. Alle volte, infatti, attivisti e volontari improvvisati si spendono per una causa o per l’altra in modo così deciso da far paura agli stessi autoctoni.
Ai limiti naturali del giornalismo, dunque, si aggiungono quelli che le peculiarità del conflitto israelo-palestinese estremizzano:
- le omissioni, ovvero la presentazione di alcuni fatti ma non di tutti, di alcune situazioni ma non di tutte;
- la reiterata scelta di dare rilievo a una storia anziché un’altra;
- la mancata verifica delle fonti e della veridicità di quanto descritto;
- il pregiudizio originale del giornalista;
- la faziosità del proprio fixer;
- e la decontestualizzazione, ovvero la descrizione di un fatto senza la spiegazione di tutte le circostanze che hanno portato al fatto descritto.
Essere giornalisti stranieri in Terra Santa significa subire l’attività di lobbying da parte di ONG, associazioni, partiti politici e “media watch-dog” sempre pronti a corteggiare i media per portarli dalla propria parte con onestà intellettuale o volgare falsità. Al giornalista ben intenzionato, serio osservatore della realtà, basterà utilizzare la propria deontologia e la propria conoscenza per barcamenarsi tra gli scogli lanciati dal Polifemo chiamato “conflitto israelo-palestinese”.
Esempi di omissioni, propaganda e falsità sono facilmente reperibili sui manuali del settore o su internet. Evito, dunque, di mostrare gli esempi più controversi e illuminanti - quelli della propaganda e del falso diramato dalle fazioni d'interesse (es. Pallywood) – per evitare qui inutili incomprensioni. Propongo solo il più banale degli esempi.
Il 30 settembre del 2000, nei primi giorni della Seconda Intifada, l’Associated Press, il New York Times e molti altri media internazionali pubblicarono la foto sottostante, identificando il luogo dell’azione nella Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, e nel ragazzo dal volto insanguinato un giovane palestinese ferito dal soldato israeliano che si vede ritratto accanto.
Tre giorni dopo, il più famoso giornale statunitense fu costretto a rettificare la didascalia della foto. Si scoprì, infatti, che il ragazzo ferito non era un palestinese ma Tuvia Grossman, un giovane studente ebreo-americano soccorso dal soldato israeliano messo in cattiva luce tre giorni prima.
Non solo, il luogo della foto non avrebbe mai potuto essere la Spianata delle Moschee perché, nel luogo più Santo di Gerusalemme, non ci sono né scritte in ebraico né, come si vede nella foto proprio dietro il soldato, distributori di benzina o automobili.
Probabilmente confuso dal caos degli scontri o annebbiato dagli stereotipi, il collega fotogiornalista si è sbagliato oppure ha dimenticato che, come insegna il giornalista e scrittore francese Albert Londres, “il reporter conosce solo una linea, quella ferroviaria”.
Alessandro Di Maio
26 Novembre 2011, Gerusalemme