Sulle Alture del Golan tra natura e guerra
Il Golan è terra fertile, rigogliosa, nera come la lava. È terra bagnata da fiumi nati altrove, terra di popoli e montagne strategiche. È un limbo conteso tra paesi confinanti, un peso sugli equilibri mediorientali e sulla vita di migliaia di persone.
Dai resti dell’antica città di Cafarnao, sulla sponda nord-occidentale del Lago di Tiberiade, esattamente nel luogo dove, secondo la tradizione cristiana, Gesù iniziò la sua predicazione, una strada di campagna porta alla Valle del Golan e alle sue aspre alture.
La strada si erpica sulla cima di una collina, dalla quale si articola un ponte sul fiume Giordano. L’attraversamento del ponte e il superamento del fiume significano una cosa sola, che si è entrati nella regione del Golan.
Proprio qui, nel 1949, al termine della prima guerra arabo-israeliana, fu stabilita la linea di armistizio tra Israele e Siria. Quella linea, tracciata sulla mappa poco più in là della riva orientale del fiume, fu il confine tra i due paesi per diciotto anni, fino al 1967, quando la Guerra dei Sei Giorni diede a Israele l’opportunità di superare la linea e occupare la regione.
Dopo il Giordano, la via è deserta, silenziosa, battuta dal sole inclemente del Vicino Oriente. Lo spazio fresco e aperto del Mar di Galilea lascia la mano a una campagna colorata dal verde degli alberi da frutto e dal giallo della sterpaglia.
Ovunque pietre appuntite e cotte al sole rendono arduo il cammino, mentre il ciglio della strada accoglie ogni tipo di relitto: dalle pietre delle vecchie case dei pastori, ai bossoli dei proiettili sparati chissà quando.
La strada attraversa la regione in diagonale, da sud-ovest a nord-est, portando sulla retta che oggi separa il Golan dalla Siria. All’incrocio un monumento commemora i caduti di guerra e sembra voler dire “mai più”; ma il conflitto, o meglio, i suoi segni, sono ancora evidenti e potenzialmente disposti a portare a nuove violenze.
Qui la natura è morta. Niente alberi, niente fiori, nessuna coltivazione. Per anni israeliani e siriani hanno coltivato solo il frutto velenoso delle mine antiuomo.
I campi minati si perdono a vista d’occhio, sembrano sconfinati. Sono tutti uguali uno all’altro: pianeggianti, coperti da erba seccata al sole e recintati da fil di ferro arrugginito e vecchio quanto il mondo.
Da un lato della strada i campi minati, dall’altro la “No man’s land”, la zona demilitarizzata che corre lungo la linea dell’ultimo cessate il fuoco. È una striscia di terra non abitata o non occupata da nessuno, e costituisce il 5% di tutto il Golan. La sua esistenza è dovuta all’istituzione dell’UNDOF, la forza d’interposizione ONU chiamata a supervisionare e mantenere il cessate il fuoco tra le parti.
I brividi sono alla portata dell’osservatore. Anche il giornalista più avvezzo alla violenza o lo scienziato politico più cinico, non sarebbero immuni al triste fascino del deserto artificiale che l’uomo ha realizzato in uno dei luoghi più fertili del Medio Oriente.
Proseguendo verso nord, il numero dei ruderi che emerge dalla sterpaglia aumenta distintamente. Sono i vecchi villaggi arabi, costruzioni in pietra e case rurali di pastori oramai scomparsi. Attaccati, distrutti, abbandonati, oggi sono il segno della follia umana.
Alcuni di questi edifici sono stati completamente abbattuti, altri rimangono in piedi, “sgangarati”. Nei pressi della città fantasma di Al Qunaytirah, una moschea mostra le ferite di guerra: una parte della struttura, probabilmente colpita da un missile di mortaio, è afflosciata sul terreno, mentre il minareto, crivellato di colpi all’inverosimile, sembra rimodellato dai fori dei proiettili.
Da Al Qunaytirah in poi, la strada - l’unica accessibile nel raggio di chilometri - si arricchisce di curve di novanta gradi modificate in modo tale da facilitare l’installazione rapida di checkpoint e postazioni di controllo. L’effetto ottico è straordinario: chi si trovasse nelle vicinanze di una curva vedrebbe la strada sbarrata da grossi macigni di colore scuro e sarebbe costretto dall’istinto a rallentare.
Su una collinetta dei giovani turisti americani osservano la città fantasma. Ascoltano le informazioni della guida, scattano qualche foto, sorridono. Da un apparecchio turistico automatico, una voce registrata descrive la conquista israeliana del Golan parlando di “eroismo israeliano”, ma ciò che si trova davanti agli occhi della scolaresca non ha nulla di eroico: un confine, una terra di nessuno, una città fantasma, una base ONU e una serie infinita di campi minati e bunker.
Viaggiare tra Israele e Siria è impossibile. Damasco non riconosce l’esistenza dello Stato israeliano e non permette voli di linea o attraversamenti di frontiera.
L’unica eccezione, tra l’altro abbastanza rara, riguarda la popolazione drusa e musulmana del Golan, gli abitanti originari della regione. Clausole aggiunte al carteggio diplomatico postbellico tra i due paesi, permettono ai drusi di attraversare la frontiera per motivi di studio o culto.
Un fenomeno particolare - descritto dal film “La sposa siriana” del regista israeliano Eran Riklis – interessa le donne druse del Golan, cui è permesso attraversare la frontiera, solo a senso unico, per incontrare il loro futuro marito. La loro è una scelta e una via senza ritorno.
Dalla conquista del Golan nel 1967 al 1981, Israele ha governato la regione con l’amministrazione militare. Poi, una legge approvata alla Knesset estese anche a questa zona il regime di amministrazione e giurisdizione civile, provocando l’irritazione siriana e la condanna delle Nazioni Unite con la risoluzione 497.
Oggi i drusi sono cittadini israeliani, ma la maggior parte di essi mantiene la cittadinanza siriana. Tra di loro c’è chi patisce l’occupazione israeliana e spera di rivedere sventolare la bandiera siriana sulle alture, ma c’è anche chi benedice i diritti civili, la democrazia e la situazione economica offerte da Tel Aviv.
“Israele non rinuncerà mai al Golan”. A Tel Aviv, a Gerusalemme, questa frase si sente dire spesso. Già, perché il Golan è una zona importante dal punto di vista strategico, militare ed economico. È una zona cuscinetto tra il cuore di Israele e paesi arabi (Libano e Siria) che non hanno problemi a far capire al mondo di non amare Israele. È una zona fertile, perché ricca dell’acqua dei fiumi nati sul Monte Hermon.
Nella parte settentrionale del Golan, prima delle alture, la campagna circonda le piccole cittadine della regione. Sono piccole unità urbane abitate da poche migliaia di abitanti e caratterizzate da stili architettonici distinti. A est ci sono le cittadine druse di Buq'ata, Mas’ada e Majdal Shams; a ovest quelle israeliane di Kiryat Shmona e Metula. Tra le due comunità, una serie di kibbutz, basi militari e centri turistici disposti nei pressi dei corsi d’acqua.
Le cittadine a popolazione ebraica sono caratterizzate da abitazioni recenti, con il tetto spiovente, finestre in stile mitteleuropa e piccoli giardini privati. Le città druse mostrano invece edifici bianchi di piccola dimensione. Nel centro città sembrano ammassarsi l’uno all’altro, ma poco fuori mostrano estrose architetture arabeggianti.
A Majdal Shams mi fermo in una piccola bottega. Delle giovani ragazze druse mi danno il benvenuto. Sono bellissime. Gli occhi, profondi e puri, sono vispi e curiosi. I capelli, lisci e lunghi sulle spalle, hanno diverse tonalità di castano, mentre la pelle lucida appare leggermente abbronzata.
La comunicazione è difficile. Loro non parlano inglese ed io devo arrangiarmi con qualche frase in arabo ed ebraico. Chiedo informazioni sul luogo dove, ogni venerdì pomeriggio, gli abitanti della città si riuniscono per “scambiare qualche saluto” con i parenti e gli amici dall’altra parte del confine.
Mi danno le indicazioni necessarie. Poi chiedo di pagare una bottiglia d’acqua. La più giovane delle ragazze, quella al bancone, prende la bottiglia dalle mie mani e la ripone in frigo. Poi mi porge una bottiglia di Coca Cola riempita con dell’acqua freddissima.
“Questa è acqua migliore, viene dal fiume ed è gratis per te”, dice sorridendo un po’ imbarazzata. Incerto sul da farsi chiedo se l’acqua sia potabile. “Ken, ken, sì, sì certo”, dice.
Quel gesto mi emozionò lasciandomi senza parole. Un po’ impacciato ringraziai e andai via. Con la macchina raggiunsi la Shouting Hill, la “collina urlante” com’è stato soprannominato il pizzo di montagna dal quale famiglie druse separate dal confine israelo-siriano si scambiano pareri e informazioni a suon di megafono.
Quel giorno al confine trovai solo soldati e operai israeliani. I primi dissero di essere lì per proteggere il confine, i secondi per collocare una rete divisoria più robusta della precedente.
Proprio lì, qualche settimana prima, esattamente il 15 Maggio, il giorno della Nakba, la “catastrofe palestinese”, attivisti filopalestinesi e palestinesi residenti in Siria (circa mille, tra cui trecento minorenni), incuranti del campo minato e dei militari israeliani, attraversarono il confine in direzione del Golan israeliano.
Quel giorno, tra feriti e morti, Israele capì di dover rinforzare la barriera divisoria al confine con Siria e Libano, e gli attivisti filo-palestinesi capirono di avere una nuova arma: l’attraversamento illegale dei confini israeliani.
Questi luoghi ritornano spesso nella cronaca del conflitto arabo-israeliano per i numerosi razzi lanciati da Hezbollah contro le cittadine israeliane di Metula e Kiryat Shmona, e per i rapimenti (realizzati dal “partito di Dio” a scopo di riscatto o scambio di prigionieri) di soldati israeliani. Ufficialmente, sono stati questi due fenomeni ad aver causato la Seconda Guerra del Libano nel Luglio 2006.
Le bellezze naturali, le incomprensioni in politica internazionali, le brutture della guerra, le culture, le lingue, i culti diversi che caratterizzano un’area così piccola come il Golan, potrebbero essere spiegati con un’interpretazione mitologica, leggendaria, biblica e probabilmente un po’ forzata, che ho scoperto durante il mio viaggio e che ritengo interessante perché qui in Terra Santa storia, politica, mito e religione sono spesso inscindibili.
Sul Golan esiste una montagna con la cima coperta dalle rovine di un grande castello. Non è ancora chiaro l’autore dell’edificio, se i crociati per rafforzare la propria presenza in Terra Santa, o i musulmani di Saladino per impedire ai crociati una più profonda penetrazione in suolo islamico.
Di certo c’è che oggi quel castello prende il nome del personaggio biblico di Nimrod, che, secondo la Genesi, fu discendente diretto di Noè e primo fra gli uomini a costruire un potente regno.
Vissuto in Babilonia (la sua Babele) e famoso per la costruzione della Torre di Babele, Nimrod fece tappa anche sul Golan e, tradizione vuole, che si fosse fermato proprio sul monte dove, in seguito, sarebbe stato costruito il castello.
Ora, poiché la narrazione biblica spiega in modo mitologico la diversità dei popoli che popolano la Terra, sono certo che il libro della Genesi 11, 1-9 possa dare un’ottima spiegazione ai contrasti e alle contraddizioni che ancora oggi caratterizzano il Golan.
«Tutta la Terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra». (dal libro della Genesi 11, 1-9)
Alessandro Di Maio
Golan, Settembre 2011