Sulla tracce di Lincoln, King e Castro
I toni rivoluzionari della campagna elettorale presidenziale portarono numerosi statunitensi a riscoprire o rispolverare le idee e le gesta di personaggi politici, rivoluzionari e padri fondatori.
Il parco monumentale di Washington D.C. li rappresenta tutti. Indipendenza, libertà, diritti, schiavitù, tirannia, repubblica, diritti civili, eguaglianza, unione, felicità. Sono tutti termini che ritornano con il monumento a Lincoln, forse quello più ricercato di tutto il parco.
Esso potrebbe essere riconducibile a molte importanti ed internazionali figure politiche, tutte quelle che ad ogni visita ufficiali vi si recano per omaggiare uno dei più famosi padri fondatori del Paese nordamericano.
Eppure la visita che mi concessi - tra la brezza fresca proveniente dal delta del Potomac e il rosa pallido dei fiori appena fioriti sugli alberi circostanti - mi fece pensare a tre personaggi politici particolari: al sedicesimo presidente USA, Abraham Lincoln, cui il monumento è dedicato, al capo del movimento per i diritti civili, Martin Luther King, e Fidel Castro Ruiz, leader della Rivoluzione Cubana.
Icona di patriottismo democratico e da tutti considerato come l’uomo che pose fine alla schiavitù negli Stati Uniti, in realtà Abraham Lincoln fu un politico controverso, capace di utilizzare la causa della liberazione degli schiavi per rafforzare l’Unione, pronto ad accentrare su di sé poteri che nessun presidente aveva mai detenuto, a sospendere l’habeas corpus e imprigionare non solo i simpatizzanti sudisti ma anche chi si opponeva alla guerra.
Nonostante ciò, per gli Stati Uniti d’America la presidenza di Lincoln fu il nuovo inizio ed egli ne fu l’artefice, il politico d’un pezzo, l’idealista, lo statista che spese la propria vita – stroncata da un attentato - per il proprio Paese.
L’ingresso al tempio comporta il severo sguardo dell’ex presidente. L’enorme scultura lo rappresenta seduto su di un trono fatto di fasci rivoluzionari di fronte ai quali, a meno di un metro dalla statua del sedicesimo presidente USA, camminò Fidel Castro.
Nel Gennaio del 1959, a pochi giorni dalla presa de La Habana che segnò la vittoria della Rivoluzione, il leader cubano andò in visita ufficiale a Washington D.C. per chiarificare i propri rapporti con la vicina superpotenza. Castro approfittò del viaggio per visitare il Memorial e rendere omaggio a Lincoln, un presidente da egli sempre pubblicamente apprezzato e stimato.
A documentare la visita fu Alberto Díaz Gutiérrez, conosciuto come Alberto Korda, un fotografo cubano che da lì a pochi anni sarebbe divenuto famoso per aver immortalato il Comandante Che Guevara nella posa che lo renderà eterno. Durante la visita di Castro, Korda fece una fotografia che intitolò “David and Goliath”: il piccolo Castro d’innanzi il grande Lincoln.
Nonostante la sacralità del luogo non poteva mancare un piccolo negozio di souvenir in pieno stile USA. Illuminato dal neon, ordinato da grasse commesse di colore e frequentato da turisti in tuta e cappello da baseball, il negozio vendeva cartoline turistiche, carte da gioco con i volti dei presidenti e pergamene del discorso di Martin Luther King.
Lì vicino infatti, sui gradini del tempio di Lincoln, un giorno di quarantacinque anni prima, esattamente il 28 Agosto 1963, in occasione della Marcia per lavoro e libertà, il dottor King, com’era spesso chiamato, fece il suo più famoso e ricordato discorso. A testimonianza del momento una piccola placca metallica a forma di stella su cui stanno incise le prima parole di quel memorabile discorso: “I have a dream”, un grido di speranza recepito da una moltitudine di gente che in religioso silenzio e con cartelloni, slogan e lacrime di commozione, ascoltò il sogno di King.
“Oggi quel sogno continua a vivere” rassicura Matthew, una guida turistica che parlava attraverso un microfono in mezzo ad un folto gruppo di vacanzieri manager cinesi vestiti in giacca e cravatta.
Non vi è dubbio che la candidatura di Barack Obama alla nomination democratica e la reale possibilità di una sua elezione a presidente abbiano risvegliato la società statunitense, confermando l’americanizzazione del sogno di King e la sua realizzazione. E’ anche vero però che per migliaia di cittadini americani costretti da anni a vivere per strada, per milioni di lavoratori licenziati e a rischio sfratto, per milioni di nuovi immigrati le istanze democratiche, di eguaglianza e libertà del Movimento dei Diritti Civili continuano ad apparire solo un sogno lontano dal realizzarsi.
A questo proposito ripropongo un articolo scritto in occasione della manifestazione popolare organizzata a New York City per il Primo Maggio 2008. Una festa dei lavoratori che negli Stati Uniti, ed in particolare nella città che non dorme mai, ogni anno si trasforma in una vera e propria protesta con richieste politiche che quell’anno furono indirizzate più all’amministrazione entrante che a quella uscente.
Cittadini statunitensi di recente acquisizione, immigrati clandestini, lavoratori in nero e studenti colorarono di rosso le strade centrali della Grande Mela. Lo fecero parlando per lo più spagnolo, con bandiere rosse di socialismo e bandiere a forma di stelle e strisce, proprio come negli anni 70’ facevano i promotori dell’americanizzazione dei diritti civili.
Quella manifestazione mi diede l’impressione di rispecchiare i cambiamenti di un Paese sempre più abitato da nuovi immigrati e da cittadini di altre lingue e culture. Secondo i dati del Pew Hispanic Center, negli Stati Uniti vivrebbero almeno 12 milioni di Latinoamericani sprovvisti di documenti e per questo definiti ‘undocumented’.
Sono giovani scappati dalla povertà dei loro paesi d’origine, ragazzi e ragazze che spezzandosi la schiena e guadagnando pochi dollari in lavori che nessun statunitense vorrebbe fare, costituiscono una parte importante dell’economia sommersa del Paese.
A questi andrebbero a sommarsi 28 milioni di cittadini americani d’origine latinoamericana, persone che parlano quasi esclusivamente spagnolo e che si sentono ancora uniti ai paesi d’origine e alle famiglie costrette a rimanere nella regione latinoamericana in attesa o nella speranza di attraversare la frontiera per un eventuale ricongiungimento famigliare.
E’ per tutto ciò che la manifestazione del Primo Maggio di New York City mise da parte il tema del lavoro per concentrarsi su quello dell’immigrazione e del diritto che, secondo i manifestanti, i 12 milioni di residenti clandestini avrebbero di rimanere nel Paese.
Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008
Il testo contnuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 26 Aprile 2009