16.01.2011 Alessandro Di Maio

REPORTAGE: Svidník, punto d’incontro tra la vecchia e la nuova Europa

L’arrivo a Svidník è surreale. Sull’ultimo autobus giornaliero partito da Prešov non ci sono uomini, solo donne di mezza età dai visi stanchi e gli abiti scuri leggermente stropicciati. Tornano a casa dopo lunghe ore passate nelle fabbriche tessili della Slovacchia orientale e nei campi della fertile e rinomata regione vinicola del Tokaj.

Quando l’autobus giunge nella piccola e silenziosa stazione cittadina incontro Lenka Feckaninova, la mia guida, una giovane insegnante di origini rutene. Percorriamo poche centinaia di metri tra gigantografie pubblicitarie appese alle pareti di enormi palazzi prefabbricati quando entriamo in un ristorante. “Il proprietario è un serbo venuto qui al tempo dei bombardamenti NATO”, dice Lenka.

Lo sguardo dei presenti si concentra su di noi perché il mio viso e la mia equipaggiatura “qui sono considerate esotiche”. L’ambiente è accogliente, rustico, con rifiniture in legno, e le bandiere della Repubblica Slovacca, della Serbia e dell’Unione Europea si mischiano a quelle dell’ex Repubblica Cecoslovacca e dell’ex Jugoslavia, ma nessuno sembra farci caso.

Il mattino seguente la sveglia suona all’alba. L’appartamento di Lenka si trova all’ultimo piano di uno dei tanti edifici in stile realista-socialista di Via Duklianska, parallela alla strada Europea 371. Dalla finestra il paesaggio è desolante: gli edifici abitativi sono tutti uguali, lunghi casermoni prefabbricati e grigi attraversati da linee verticali di colore blu, verde, rosso o giallo e bucherellati da lunghe file di finestre.

Scesi in strada ci avviamo verso la Spojená škola, la scuola superiore d’indirizzo tecnico in cui insegna Lenka. L’idea è quella di presentarmi ai suoi studenti e permettere loro di parlare in inglese con qualcuno diverso dall’insegnante.

L’istituto si trova nella parte meridionale della città e per giungervi camminiamo su strade e marciapiedi che sembrano aver avuto tempi migliori. Nel freddo pungente della mattina, Lenka parla entusiasta della sua città rispondendo rapidamente ai saluti imbarazzati degli alunni che incontriamo durante il cammino.

Parte della Grande Moravia fino al primo millennio questo luogo era noto con il nome di Sudnici. Fece parte del Regno d’Ungheria e alla fine della Prima Guerra Mondiale venne inglobato nella neonata Cecoslovacchia, rioccupato dall’Ungheria nel 1919 e ritornato alla Cecoslovacchia fino alla divisione tra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca avvenuta poco dopo il crollo della cortina di ferro.

A due passi dal valico di Dukla, il villaggio fu sempre considerato uno snodo strategico per i collegamenti commerciali e militari tra Ungheria ed Europa del nord. Per questo motivo nel XV secolo venne distrutto dall’esercito polacco durante gli scontri con gli ungheresi, nel 1806 fu attraversato dalle armate del generale russo Kutuzov, di ritorno dalla battaglia dei tre imperatori, nel 1914-15 venne devastato dai combattimenti tra le truppe russe e quelle austro-ungariche, e durante la Seconda Guerra Mondiale fu teatro della vittoria sovietica sui nazisti che garantì all’Armata Rossa lo sfondamento della linea di difesa tedesca e la penetrazione in Europa centrale.

Quando giungiamo a scuola gli studenti aspettano il suono della campanella per entrare in classe. Lenka mi presenta ai suoi colleghi, quasi tutti giovani sotto i trent’anni. “Dal cambio di regime ci siamo sempre sentiti poco moderni e per questo ci siamo vergognati del nostro passato – dice Daniel, professore di storia – ma l’ingresso nell’Unione Europea avvenuto nel 2004 ci ha restituito la nostra storia e cultura europea, permettendoci di coltivare le nostre tradizioni all’interno di un quadro di sviluppo economico e geopolitico che vede la Slovacchia come ponte verso l’Ucraina”.

Le aule della scuola sono pulite e ben attrezzate, le pareti assolutamente bianche e verdi, i trofei, le mappe e gli annunci in bacheche differenziate dal colore. Quando entro in classe parlo con gli studenti. Affermano di non comprendere il mio interesse per Svidník, “qui non c’è niente”, dicono. Hanno voglia di viaggiare, di conoscere l’America e attraversarla da est a ovest, dal Canada al Cile, ma pochi sono quelli che parlano di Europa. “Molti di loro non sono mai stati oltre le frontiere nazionali - dice Lenka. Alcuni vanno in Ucraina a trovare i parenti, gli altri, grazie a Schengen, preferiscono attraversare il confine con la Polonia, ma in generale sono attratti più dagli Stati Uniti che dagli altri paesi europei”.

Proprio come nell’Italia meridionale, l’idea di Unione Europea non attecchisce nemmeno nei giovani dei villaggi e delle cittadine di provincia della Slovacchia. “L’ingresso nell’UE è servito e continuerà a servire molto a Svidník perché dal 2007 usufruisce dei crediti del Fondo sociale europeo per le aree meno ricche. Come puoi vedere - continua Lenka indicando l’aula a fine lezione - le scuole sono state messe a nuovo, le vecchie fabbriche tessili sono state privatizzate e rimodernate e sono in costruzione nuove infrastrutture, come l’autostrada che collegherà Prešov con la Polonia, ma i giovani non conoscono l’Europa e quei pochi che la conosceranno lo faranno tardi e solo per mezzo di progetti come l’Erasmus e Socrate”.

Fuori l’aria è fresca ed i colli risplendono d’un verde intenso. In uno spiazzo deserto lastricato di blocchi di cemento si erge un edificio prefabbricato dalle facciate marroni e bianche. E’ la costruzione più alta della città, un ex albergo che se oggi riversa abbandonato per la maggior parte dei suoi quindici piani, un tempo ospitava i turisti del blocco socialista e i quadri del partito comunista in visita nella città durante gli anniversari della vittoria sui nazisti.

Da est suonano le campane della moderna chiesa cattolica del Sacro Cuore di Gesù. Il loro scampanio si confonde con quello delle altre chiese della città: due greco-ortodosse e una ortodossa, tutte costruite o ristrutturate nei primi cinque anni degli anni ’90 per far fronte al sentimento religioso di una popolazione per anni obbligata all’ateismo.

Oggi Svidník è una città multietnica e multi confessionale. Il censimento del 2004 ha contato 12mila abitanti (80% Slovacchi, 13% Ruteni, 4% Ucraini e il restate 3% tra Rom, Ungheresi e Polacchi) che per poco meno della metà si sono detti di fede greco-ortodossa, per il 25% rispettivamente ortodossi e cattolici e per il 5% atei.

L’aria che si respira camminando per la strada è quella di una tranquilla cittadina caduta in disgrazia con il crollo del Muro di Berlino, e impegnata a risorgere con l’aiuto economico dell’Unione Europea. La toponomastica, gli edifici, i monumenti sono quelli del periodo socialista ma le bandiere blu a stelle gialle abbondano, e se gli amministratori sono gli stessi del passato i cittadini hanno creato associazioni culturali e tessuto rapporti con organizzazione europee.

Svidník rimane una città di servizi che alla ben organizzata burocrazia di matrice socialista ha aggiunto l’efficienza occidentale. Gli impianti sportivi ed i numerosi musei danno lavoro a decine di persone, e l’ospedale “Generale Ludvík Svoboda” dà impiego a quasi quattrocento persone e usufruisce del finanziamento del Fondo Sociale Europeo.

In città a Ludvík Svoboda non è dedicato solo l’ospedale ma anche strade, piazze e perfino una statua, l’unica al mondo. Opera in bronzo dell’artista Jána Kulicha, essa è sita sulla Via Sovietskych Hrdinov (Via Eroe Sovietico), di fronte il municipio, e ritrae un uomo con lo sguardo rivolto al futuro e il viso segnato da profonde rughe e nascosto da un cappello militare.

Secondo Roman Gazdík, giornalista del quotidiano ceco Aktualne.cz, “Svoboda occupa un ruolo controverso nella storia dell’ex Cecoslovacchia in quanto se da un lato cercò sempre di salvaguardarne la sovranità, dall’altro costituì il cavallo di Troia sovietico a Praga e il più importante architetto della ‘normalizzazione’ dei rapporti con l’Urss dopo l’intervento armato del 1968”.
In quell’anno i carri armati sovietici passarono anche da Svidník, ma oggi la città sembra essere poco interessata ai bilanci dell’attività politica di un uomo che considera cittadino onorario ed eroe di guerra per aver comandato il Primo Corpo d’Armata Cecoslovacca e vinto i nazisti al fianco dell’Armata Rossa.

A pochi metri dalla statua dell’ex generale e presidente vi è il centro abitativo principale della comunità Rom. In un largo e dissestato cortile bambini corrono e gridano, giocano e piangono, mentre uomini adulti discutono attorno ad una vecchia station wagon e donne di mezza età gridano tra loro da finestre di edifici malconci, di colore rosa e in parte privi di stucco e intonaco.

La strada adiacente è sottoposta a lavori di manutenzione da parte di nove operai dalla carnagione scura. Parlano slovacco e albanese e credono che io sia greco, ma quando affermo di essere italiano uno di loro si fa avanti dicendo di aver imparato la lingua italiana tanti anni prima, a Tirana, in Albania.

Si toglie i guanti da lavoro. “Mi chiamo Rajko e sono serbo, rom di Serbia chiaramente. Lui è turco – continua indicando un suo collega – mentre loro sono tutti Rom Slovacchi”. Sono uomini di mezza età nati tra Slovacchia, Serbia e Turchia al tempo del comunismo e del kemalismo e hanno girato l’Europa molto prima del Trattato di Schengen.

“Loro sono Rom Slovacchi o Slovacchi Rom?”, domando. “E’ uguale, qui non ha mai avuto differenza. Da queste parti non esiste l’omogeneità culturale, siamo tutti diversi”, risponde traducendo ai colleghi che con la testa danno il proprio assenso.

Rajko viene dalla città di Subotica, al confine tra Serbia e Ungheria, ma dice di conoscere i Balcani come le sue tasche “perché prima - con la Jugoslavia – vivevamo tutti in un solo paese ed era possibile andare da una parte all’altra”. Rajko spera che tutti i paesi dell’ex Jugoslavia possano far parte presto dell’Unione Europea “perché i Balcani sono la schiena d’Europa e senza di essa l’Europa è solo a metà”.

L’uomo turco è più robusto dei suoi colleghi e porta corti ma folti baffi neri. Si chiama Yaşar. Non vive a Svidník, ma a Košice, più a sud, insieme a moglie e figlie. “La Turchia entra in Europa?”, gli domanda Rajko in slovacco traducendo la mia domanda.

Yaşar, prima serio e con la fronte corrugata, si scioglie in un largo sorriso. “I turchi sono già in Europa, tre milioni di miei connazionali vivono tra Germania, Francia, Inghilterra e Italia. Perché non dovrebbe entrare la Turchia? Sarebbe un bene per tutti, per noi turchi, per voi, per i greci”, dice salutandomi e tornando a lavoro.

A piedi percorro la statale 77 che segue il fiume Ondava tagliando la città da nord-ovest a sud. E’ una strada a quattro corsie, molto larga, circondata da alberi e lampioni colorati di giallo e azzurro in onore alla cultura rutena. Il traffico è così scarso - limitato a qualche Skoda, Volkswagen, Hyundai, trattori agricoli e vecchie Trabant – da aver generato la leggenda secondo cui la strada avrebbe dovuto fungere da pista di atterraggio e decollo per l’aereo che, in caso di guerra, avrebbe dovuto mettere in salvo Vasil Biľak, un sarto d’origine russa nato e residente a Svidník, che, dopo l’invasione militare delle truppe dei paesi del Patto di Varsavia nella Cecoslovacchia del 1968, sostituì Alexander Dubček come segretario generale del partito comunista cecoslovacco fino al 1988.

La strada separa il centro urbano dallo Skanzen, l’antico villaggio della popolazione rutena costruito interamente in legno. Qui, due uomini e una donna si danno da fare per costruire le panche in legno per la messa domenicale, un ragazzino trasporta il legname con un trattore e Andrea, una ragazza rutena di venti anni che parla inglese e qualche parola in italiano per aver lavorato tre mesi in un ristorante di Trieste, mi racconta delle antiche tradizioni del suo popolo mentre cuce dei portamonete che venderà su internet. “Sono contenta di essere in Europa e di viaggiare in libertà, ma al tempo stesso – ammette – ho paura di perdere le mie radici, la mia cultura. La Slovacchia è il mio paese ma sono Rutena e aspetto il giorno in cui anche l’Ucraina farà parte dell’Unione. Solo in questo modo, infatti, tutto il popolo Ruteno - stanziato tra Ucraina, Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania - sarà un popolo Europeo”.

A fine giornata lascio Svidník con la consapevolezza di aver conosciuto le due Europe, quella vecchia, divisa e ferita dalla cortina di ferro, e quella di oggi, speranzosa, ottimistica, aperta agli altri, a volte in contraddizione e ancora in costruzione.

Reportage pubblicato da LaSpecula Magazine il 31 Maggio 2009 e partecipante al concorso europeo "Europe Enlargment"