Perdere un giorno di vita a Tel Aviv
Erano le due di notte e la strada verso l’ospedale di Tel Aviv era completamente sgombra e silenziosa. L’auto sfrecciava alla velocità di cento chilometri orari, lasciandosi dietro il vecchio porto cittadino, i barboni buttati sulle panchine del parco HaYarkon e i grattacieli semi illuminati del centro.
Sharon guidava in silenzio. Io, sofferente come mai prima di allora, con la fronte grondante di sudore, urlavo come un asino ferito. Pochi minuti prima, un dolore acuto e costante all’altezza del rene sinistro aveva interrotto il mio sonno.
Nel romanzo Il re della pioggia, lo scrittore statunitense e premio Nobel per la letteratura, Saul Bellow scrisse che “la sofferenza è forse l'unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito”. Ebbene, quella notte una sofferenza fisica sino allora sconosciuta iniziò a battere il mio sonno, rompendolo fino allo spirito.
Arrivato in ospedale, mi chiesero il passaporto e il numero dell’assicurazione sanitaria. Diedi il primo, il secondo mi mancava. L’assicurazione era scaduta la settimana prima.
Strascicando le ciabatte malchiuse, raggiunsi il pronto soccorso. “Si sdrai sul letto numero 8”, disse un’infermiera. Il tempo di accasciarmi sulla barella non fu sufficiente che il dolore al fianco sparì gradualmente.
Pochi minuti dopo, un infermiere dal fisico atletico si avvicinò alla barella. Teneva una cartella clinica pronta per essere imbrattata. “In genere godi ottima salute? Fai utilizzo di droghe? Se mai stato ricoverato? Se sì, per quale motivo?”, mi chiese.
Risposi lentamente, come se ogni parola fosse uno straordinario consumo di energia. Lui prese nota di tutto senza mai distogliere lo sguardo dal foglio di carta. Quando posò la cartella clinica, prese il mio braccio destro e lo preparò per la fleboclisi. “Oh piano”, lo richiamai quasi ad alta voce.
L’infermiere guardò Sharon con espressione interrogativa. Lei con nonchalance rispose: “è un giornalista che si impressiona degli aghi”. L’infermiere sorrise e proseguì smanettando sul mio braccio. “Fa attenzione, è la mia prima flebo”, precisai con voce scontrosa.
Mi prelevarono del sangue e mi chiesero di raccogliere un po’ di urina per dei test. Mezz’ora dopo, un’infermiera dai capelli biondi e dallo strano accento ebraico – probabilmente un’israeliana di origine russa – si presentò al capezzale della barella. “Signor Di Maio, molto probabilmente si tratta di un calcolo al rene sinistro”, disse in inglese.
L’idea di una pietra al rene non mi rendeva l’uomo più felice sulla Terra, ma di certo toglieva dubbi e preoccupazioni che mi impensierivano da quando avevo messo piede in ospedale.
Risparmiato dai dolori, iniziai a rendermi conto di ciò che mi stava succedendo. Offuscato dalla chimica di tranquillanti e antidolorifici, non credevo possibile una colica renale, non riuscivo ad accettare che per la prima volta in vita mia avevo bisogno di un ospedale.
Non solo, mi spaventava trovarmi sprovvisto di assicurazione sanitaria nel più grade ospedale israeliano. “Cento, centocinquanta euro…”, borbottavo tra me ipotizzando il costo che avrei dovuto affrontare una volta uscito dal pronto soccorso.
L’ospedale dove mi trovavo era il Sourasky Medical Center (ex Ochilov Hospital), la migliore e la più grande struttura sanitaria di tutto Israele, la stessa dove, nella notte del 4 Novembre 1995, fu portato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ferito a morte con dei colpi di arma da fuoco sparati da un militante della destra estrema israeliana. Ero certo che mi avrebbero fatto ricordare l’esperienza.
Dal punto di vista della legislazione sanitaria, dall’approvazione della Health Insurance Law nel 1995, Israele ha importato il sistema statunitense delle assicurazioni private, ma lo ha adattato ai principi sociali che caratterizzano la politica economica dello Stato mediorientale sin dalla sua nascita.
Con la nuova norma, i servizi sanitari sono pagati dallo Stato e sono usufruibili da tutti i cittadini israeliani che si sono assicurati presso un istituto sanitario privato (pagando la c.d. tassa assicurativa che si aggira sui 100 euro annuali), e che si sono affiliati a una delle quattro aziende sanitarie create e/o privatizzate in quegli anni (Clalit, Maccabi, Kupat Holim e Leumit).
Per turisti e lavoratori stranieri il sistema valido è quello statunitense puro: assicurazioni private con prezzi diari che vanno dal dollaro in su. Chi ha l’assicurazione riceve cure gratuite, chi non c’è l’ha o chi, come me, ha tardato a rinnovarla, paga prezzi ridicolamente alti.
Sharon lasciò il pronto soccorso per ottenere maggiori informazioni sul trattamento economico che avrei dovuto affrontare. Io rimasi immobile sul lettino numero 8. Tutt’attorno solo voci, rumori e lamenti. La mia intimità era garantita da quattro fili di tende che circondavano la mia barella togliendomi dalla visuale di malati, infermieri e visitatori.
Solo un angolo era sguarnito. Lì le due tende non s’incontravano bene e c’era lo spazio sufficiente per uno costante e reciproco scambio di occhiate tra me e un uomo cui era stata rotta una mano.
D’un tratto sentii uno spasmo al fianco. Era il segnale. Il dolore crebbe gradualmente in modo così rapido che nel giro di un minuto mi ritrovai a soffrire e sudare come un soldato colpito da una pallottola.
Con la mano sinistra stringevo le lenzuola asettiche della barella e con l’intero braccio destro facevo leva sul materasso nella speranza di trovare una posizione indolore. Ogni speranza fu vana.
Il dolore, straordinariamente intenso, squassava corpo e anima, rendendomi capace di sproloquiare e imprecare come mai avevo fatto in vita mia. Quello fu il mio primo vero incontro con il dolore. Era come se una mano invisibile muovesse il mio fianco sinistro con un pugnale freddo, duro e tagliente.
Mezz’ora dopo tornò Sharon. Con lei c’era anche l’infermiere taciturno. Entrambi mi osservarono per qualche secondo. La mia fronte grondava così tanto sudore che le sopracciglia non riuscivano a evitare che gli occhi si bagnassero.
Sharon prese a soffiarmi sul viso, come per asciugarmi e darmi sollievo. Era preoccupata e spaventata. Cercavo di soffocare i miei lamenti, ma era quasi impossibile. La guardavo dritta negli occhi, facendo di lei il mio punto di riferimento, la ragione per lamentarmi il meno possibile.
“Somministragli 10 mg di morfina”, ordinò il direttore del pronto soccorso all’infermiere. Lui diluì il preparato e l’iniettò nelle mie vene a tempo di record. Per alleviare le sofferenze, avevano deciso di drogarmi con una quantità di morfina che avrebbe reso felice un tossicodipendente.
In quel momento avrei accettato qualsiasi cosa pur di alleviare il dolore, e la morfina, benché stigmatizzata negativamente, non faceva differenza. D’altronde era un preparato conosciuto e utilizzato da secoli per placare il dolore, e mi era stato prescritto da un medico.
Quei dieci milligrammi di oppiaceo calmarono gradualmente il dolore, regalandomi il momento più piacevole dell’intera notte: la diminuzione del dolore fu gradevole più della totale assenza del dolore stesso.
Offuscato dagli effetti del preparato, diventai quieto, mansueto, immobile. I tratti del viso si distesero e la fronte si asciugò rapidamente. Andai in bagno accompagnato da Sharon e mi accorsi di ciò che accadeva attorno a me.
Il pronto soccorso brulicava di feriti e poliziotti. Vidi un paio di ragazzi sporchi di sangue. Uno di loro perdeva sangue dalla testa. Un altro aveva dei fori nelle mani, come delle stigmate. Pensai immediatamente a un attentato, ma Sharon mi tranquillizzò: era sabato sera e quei ragazzi, ubriachi fino al midollo, si erano vicendevolmente presi a coltellate.
Mentre mi trascinavo verso la barella, notai due trans vestiti in modo succinto. Sharon mi disse che a uno dei due era saltata una protesi mammaria. La cosa mi fece sorridere, ma quando mi trovai nei pressi della mia barella, mi accorsi che al letto numero 7, quello accanto al mio, stava sdraiato un giovane africano vestito con un paio di jeans e una camicia a righe.
Vestito da un paio di jeans e da una camicia sporca di sangue, il giovane era legato alla barella da due manette e controllato a vista da un poliziotto armato. Un dottore gli parlava, cercando di comunicargli qualcosa, ma il giovane non rispondeva e il suo sguardo rimaneva perso nel vuoto dritto a sé.
Mi fecero la Tac, la prima della mia vita. Fu come entrare in un tunnel gelido e insonorizzato. In quel momento mi resi conto che la morfina non aveva solamente spento i recettori del dolore, ma mi stava addormentando piano piano.
Quando mi risvegliai, il soffitto si muoveva. Un’infermiera spingeva la mia barella e Sharon mi seguiva di lato. “Cosa succede?”, le chiesi. “Niente, ti portano nella tua stanza, proprio come abbiamo deciso”, rispose.
Da quello che appresi in seguito, dopo la tac non dormii, ma nel dormiveglia e nello stato confusionale in cui mi aveva gettato la morfina, presi la decisione di rimanere un giorno in ospedale.
La decisione fu razionale perché, da quello che avevano detto a Sharon, il costo del servizio ospedaliero era valido per 24 ore. Dunque, se avessi lasciato l’ospedale in quel momento, avrei dovuto pagare la stessa cifra come se fossi rimasto per un day hospital.
Mi diedero il pigiama d’ordinanza del reparto di urologia. Lì le infermiere erano due, grasse e poco propense a parlare l’inglese. Una era un’israeliana di origine russa, l’altra un’araba-israeliana. Entrambe dolci ma dalle maniere spartane.
Mi diedero tutte le indicazioni necessarie. “Se senti nuovamente dolore, chiamaci pigiando quel tasto lì” – dissero indicando all’unisono un piccolo interruttore posto sopra il letto.
Poi venne il caporeparto. Disse che dalla tac è risultato un calcolo di un millimetro. “Tutto questo dolore per un calcolo di un millimetro?”, chiesi. “Già”, rispose secco.
Dopo qualche ora un altro paziente fu collocato nella mia stessa stanza. Si chiamava Freddy ed era un israeliano d’origine belga, un uomo sulla mezza età, dai capelli grigi e la carnagione scura. Si trovava in ospedale perché aveva due pietre di svariati millimetri e un dolore che gli faceva lacrimare gli occhi.
Dopo pranzo ci diedero una pillola che avrebbe dilatato i tessuti e fatto uscire il calcolo. Mangiai, presi la pillola, parlai e scherza con Sharon. Poi caddi in un sonno profondo. Mi risvegliai la notte successiva. Dalla finestra della mia stanza, al sesto piano dell'ospedale, godevo una vista straordinaria. Tutta la città era al mio capezzale. A sud s'intravedeva il groviglio di minareti e campanili dell'antica Giaffa. A nord la ciminiera della vecchia centrale elettrica inglese regnava su uno spazio buio, occupato dagli alberi che fanno da argine naturale al fiume Yarkon. Il resto un'orgia di luci e di tetti adornati da bollitori d'acqua, scaldabagni e antenne satellitari.
Le strade si riempivano di persone. Centinaia di migliaia di israeliani scendevano in strada proprio in quel momento per chiedere al governo Netanyahu maggiore giustizia sociale e l’abbassamento del costo di vita nel paese. Era l'inizio del movimento di protesta nato dal malessere di molti cittadini israeliani e influenzato dalle rivolte arabe, che molti continuano a chiamare "rivoluzione". Dall'alto vedevo uomini e donne di tutte le età, con cartelloni e striscioni. Vedevo bambini accompagnati dai genitori lasciare andare al cielo palloncini pieni d'elio.
Quella stessa notte pisciai la pietra senza accorgermene. Quando fu evidente che la mia situazione si era risolta, lasciai l’ospedale con Sharon. Tornammo a casa in auto. Era tardi e la manifestazione era finita da un pezzo. Per strada rimasero solo le briciole: poster, striscioni, coriandoli, volantini. Tornammo a casa con i finestrini abbassati, lasciando che l’aria fresca della notte di Tel Aviv ci sfiorasse il viso. Due notti e un giorno erano passati senza che io me ne accorgessi. Avevo perso un giorno di vita a Tel Aviv.
Alessandro Di Maio
Tel Aviv, Agosto 2011