Le rivoluzioni nel mondo arabo. “Votare non significa democrazia”
Israele segue con attenzione le rivolte che da settimane interessano il mondo arabo. Il prof. Gideon Doron - docente di Scienze Politiche all’Università di Tel Aviv - esclude si tratti di ‘rivoluzione araba’, ma il timore che l’eventuale radicalizzazione della scena politica egiziana indebolisca l’alleanza israelo-egiziana si fa sempre più grande. Per adesso le autorità israeliane preferiscono tacere.
Cosa sta succedendo nel mondo arabo?
Milioni di persone vivono in povertà, non hanno di che vivere e sono costretti ad una vita di stenti, sofferenze e privazioni. Gli eventi a cui stiamo assistendo non hanno matrice ideologica o religiosa, sono frutto della fame e della depressione sociale di quelle genti. Sono rivolte di scontento popolare, iniziate da chi per problemi economici non riesce a comprare il pane, a sposarsi o a mettere al mondo dei figli, e continuata da chi facendo delle comparazioni con altre realtà si rende conto che nel proprio paese mancano bilanciamenti politici, sociali ed economici.
C’è la possibilità che queste rivolte si diffondano in tutta la regione?
Certo. Questo si sta già verificando. Le rivolte sono iniziate in Algeria, continuano oggi in Tunisia ed Egitto, ma piccoli e sempre più numerosi focolari sono evidenti in Yemen, Giordania, Libano, Libia e nei Territori Palestinesi. Inoltre, la velocità del sistema mediatico mondiale ha messo al corrente le opinioni pubbliche di tutti i paesi arabi e le comunità arabe nei paesi occidentali, che hanno immediatamente solidarizzato con i rivoltosi, fornendo loro coraggio e linfa vitale.
Possiamo parlare di rivoluzione del mondo arabo?
No, non la ritengo una rivoluzione. Al momento non ne riscontro i presupposti. Siamo di fronte a degli eventi importanti che porteranno certamente dei cambiamenti tramite un periodo di riforme e migliorie. Potrebbe essere l’inizio di un processo di democratizzazione dell’area, ma anche in questo caso bisogna pesare bene le parole: un paese non diventa democratico solo perché si fanno le elezioni, ma sono necessari anni di riforme e di cultura alla democrazia e alla salvaguardia dei diritti umani.
C’è il rischio che la rivolta possa essere cavalcata da gruppi radicali islamici?
Sì, questo è un rischio che da queste parti non manca mai. Ogni rivolta porta con sé il pericolo di una strumentalizzazione da parte di islamisti radicali e terroristi. Il gruppo islamista dei “Fratelli Musulmani” in particolare, gode già di un cospicuo consenso tra la popolazione egiziana, ed essendo ben organizzato e con una chiaro progetto politico religioso potrebbe sfruttare benissimo la rivolta e arrivare ai vertici del potere dello Stato.
Questo potrebbe mettere a rischio il trattato di pace tra Egitto e Israele?
Sì, è un rischio che potrebbe esserci.
Israele come vede la rivolta egiziana?
Israele è interessato alla propria sicurezza e alla stabilità dell’intera area mediorientale. Tuttavia, se non ci sono state prese di posizione da parte dei nostri vertici politici è perché Israele al momento preferisce tacere. Infatti, siamo uno Stato democratico favorevole a qualsiasi processo di democratizzazione, ovunque esso avvenga, ma, al tempo stesso, temiamo che un eventuale radicalizzazione della scena politica egiziana possa indebolire l’alleanza israelo-egiziana firmata a Camp David nel 1978.
Intervista di Alessandro Di Maio pubblicata su LaSpecula.com Magazine il 1 Febbraio 2011