La notte trascorsa fuori Vienna
Vienna, il più prezioso fra i gioielli della cultura europea, cuore della più importante casa regnante di tutto il mondo, quella asburgica.
Il 28 Dicembre 2007 la meccanica di un bimotore tedesco e quella del vento, naturale e trasparente come solo le cose di Dio sanno essere, mi portarono da Norimberga a Vienna, dalla Germania sud-orientale alla dolce e verde Austria centrale, in un viaggio tanto breve e lento da potersi considerare un piacere.
Arrivai che erano le dieci di sera. Lei mi aspettava in aeroporto. Da lì avremmo dovuto prendere un treno per il centro di Vienna dove avevamo riservato una camera.
La vidi in stazione. Sorrideva con il leggero imbarazzo di chi aspetta qualcuno all’uscita dell’aeroporto. Ci abbracciamo forte. Poi, incuranti del peso dei bagagli, parlando e saltellando come grilli vivaci ci dirigemmo alla banchina del treno che in non più di quindici minuti ci avrebbe destinato al centro della capitale austriaca.
Lei parlava un po’ di tedesco, almeno così aveva sempre detto. Quella sera, al mio arrivo, disse di conoscere la strada e il numero del treno che ci avrebbe portati in città, perché lo aveva più volte chiesto ai passanti.
Arrivò il treno. Fu una partenza felice, spensierata. Una comoda stanza d’albergo con vista, una passeggiata notturna, un tè caldo, le luci natalizie. Avremmo avuto tutto questo a breve o almeno era questo ciò che pensavamo.
Passarono più di quindici minuti e Vienna non si vedeva ancora. Dalle finestre del treno non traspariva nulla, solo il buio della notte congelata. Cosa mettere in dubbio? La puntualità austriaca o il tedesco di lei? Prima di decidere mi alzai per chiedere informazioni ad un ragazzo paffutello seduto accanto.
Era paffutello, con gli occhiali tondi ed un libro in mano. Senza battere ciglio disse che il treno era diretto a Bratislava, capitale della Slovacchia. Avevamo sbagliato treno prendendo quello che andava nella direzione opposta a quella di Vienna.
Scendemmo alla prima stazione. Il freddo ci avvolse, la neve registrò i nostri passi. La stazione era nel buio totale. Non vi era nulla, solo il binario appena lasciato dal treno e la banchina coperta di neve.
Mancava un’ora a mezzanotte e secondo l’orario dei treni affisso ad una bacheca in quella stazione non si sarebbero fermati più treni. Lasciammo la stazione per la strada. Essa affiancava la campagna aperta. C’era anche qualche casa, una luce gialla ogni tanto e nessun rumore.
Speravamo in un autobus, un taxi, in qualche vicina locanda. Niente di tutto ciò, eravamo da soli in una zona imprecisata tra l’Austria e la Slovacchia, al ridosso del confine.
Guardai la mia compagna. Le dissi che probabilmente il suo tedesco non era buono come diceva. Lei accennò ad un sorriso, io la seguii. Ci ridemmo sopra per qualche minuto.
Il freddo e la solitudine del luogo ci portò alla ragione. Dopo venti minuti una Ford station wagon, si avvicinò lentamente con fari deboli gravati dalla neve. Finalmente qualcuno che potrebbe aiutarci, ma tanto fu il nostro stupore quando dalla macchina scesero due poliziotti austriaci, in uniforme blu scura, pila tascabile e un viso affatto rassicurante.
Indirizzarono le loro torce sui nostri visi, poi sulle mani, i piedi e le valigie. Non ci salutarono, né sorrisero. In un inglese sfibrato dalla lingua tedesca ci ordinarono di mostrare i documenti. Ripeterono l’ordine più volte facendo svanire le nostre speranze di soccorso.
Con quei due poliziotti era inutile insistere. A loro non interessava aiutarci, volevano solo sapere chi eravamo e cosa facevamo in quella steppa di neve. Dal nostro canto non chiedemmo molto, solo un passaggio fino ad una stazione ferroviaria o degli autobus.
I due poliziotti osservavano le nostre carte d’identità con particolare attenzione. La mia compagna era ungherese e da qualche giorno l’Ungheria era entrata nell’area Schengen. Questo li rassicurava.
La mia carta d’identità li impensierì. Pensavano forse di aver trovato un clandestino, non credevano che in Italia potessero esserci delle Carte d’identità non plastificate. La sfregavano tra pollice ed indice, mettendola contro la luce della torcia, accostandomela al viso e muovendo gli occhi tra la foto della Carta e il mio volto.
Alla fine decisero di porre fine all’ID inspection, di lasciarci lì in mezzo al nulla, incuranti delle nostre richieste d’aiuto. Fu duro accettare il loro comportamento.
Rallegrati di vederli andar via, ci accostammo ad una larga strada, certamente un autostrada. Non nevicava più ma la nebbia sembrava soffocasse i lampioni gialli. Ad ogni auto puntavamo il pollice al cielo per chiedere un passaggio.
Le macchine passavano ma nessuna si fermava. Qualcuna ogni tanto rallentava per poi accelerare beccandosi dietro le nostre imprecazioni. Poi si fermò una piccola macchina bianca. Da vicino sembrò un relitto fumane. Era una Trabant, auto tedesca costruita nell’ex Germania Democratica per il “proletariato dell’Europa socialista”.
A guidarla era uno slovacco alto e magro con fini e corti capelli biondi e occhi chiari. Era vestito con jeans e un maglione azzurro. Non parlava inglese, solo qualche parola di tedesco, italiano e francese.
Passammo il viaggio in macchina cercando di comunicare con Ivan, questo il nome dello slovacco. Ci disse di aver attraversato il confine da qualche minuto e di essere diretto in un paesino a nord di Vienna, dove il giorno dopo avrebbe partecipare alle nozze del fratello.
Ivan ci scortò fino al centro, nonostante la lancetta della benzina segnasse rosso da molto tempo. Ci lasciò tra la sede internazionale dell’OPEC e il canale cittadino del Danubio. Da lì fu facile prendere un taxi e trovare l’albergo. Era mezzanotte passata. La notte era trascorsa.
Tratto da "Diario del viaggio dei confini orientali"
Dicembre 2007-Gennaio 2008
Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexander Platz Blog il 26 Febbraio 2008