La mia amante ha cambiato vesti
Come spesso accade in amore, ho conosciuto la mia amante di notte, sotto le stelle e lo sguardo indiscreto dei gatti. Era il 2009 e di quell’incontro ricordo tutto – l’odore acre del mercato delle carni, quello delicato dei gelsomini delle case, i murales dei pellegrini di ritorno da La Mecca, il passo veloce degli ebrei ultra-ortodossi e le porte chiuse del Santo Sepolcro.
Vestivo tutto di lino bianco, mentre lei, la mia amante, aveva un lungo abito da sera di colore nero. Il suo nome era Gerusalemme ed era bellissima.
Quella notte la passai insieme a lei, camminando senza cartina, telefono e denaro “perché - mi giustificai il giorno dopo con un collega belga - doveva essere un incontro al buio con la Città Santa, non l’occasione per farmi derubare da qualcuno”.
Camminammo senza darci la mano perché non ci fidavamo ancora l’uno dell’altra; ma lei, Gerusalemme, si lasciò scoprire piano piano, come una vergine eccitata ed intimorita dalla prima volta.
Quando il buio della notte lasciò il posto a un sole forte già di primo mattino, le campane, le chiamate alla preghiera e le continue orazioni degli ebrei al Muro del Pianto diedero tempo alla vita, che tornava a conquistarsi ogni angolo, vicolo e cortile di Gerusalemme.
A sole già alto il riflesso della luce sulle pietre delle case imprestò alla città contrasti cromatici straordinari. Me ne accorsi al quartiere ebraico, dove mi trovavo per riprendere fiato dopo l’insonne e lungo cammino notturno. Lì mi passai una mano sulla fronte per cacciar via le goccioline di sudore che scendevano agli occhi, e presa la macchina fotografica scattai una foto alla Cupola della Roccia (dorata dal dono della casa reale Hascemita e dalla forza del Sole mediorientale), includendo il minareto di una delle tante moschee della Spianata, qualche palma, delle parabole satellitari e sullo sfondo un insediamento israeliano oramai integrato nel tessuto della città.
Quella fotografia affatto speciale fu la prima che scattai a Gerusalemme e il segnale della fine del nostro primo incontro. Da allora, la mia amante ed io ci siamo spesso ritrovati, per pochi minuti e per giorni interni, sotto il sole e sotto la pioggia, in festività religiose ebraiche, cristiane e musulmane e durante gli scontri tra israeliani e palestinesi.
Nel 2011, con il mio trasferimento da Tel Aviv a Gerusalemme, iniziammo una fruttuosa e interessante convivenza che continua anche adesso, permettendoci ogni notte di dormire insieme sotto un tetto che per filosofi e religiosi medievali è il più vicino al Paradiso.
Insieme abbiamo rotto tabù e convenzioni di ogni tipo, tant’è che oggi ci definiamo una coppia matura - anche perché Gerusalemme ha più di 6000 anni ed io non riesco più a tenere il conto dei capelli bianchi che ho in testa.
Una manciata di giorni dopo l’inizio del 2013, la mia amante indossò vesti che mai le avevo visto sfoggiare. Dal Monte degli Ulivi e dal Monte Scopus - occhi di una testa montuosa poggiata sul cuscino che è il Deserto di Giuda - fino ai boschi della valle che oggi la collega al Mediterraneo, la Città Santa vestì totalmente di bianco perché coperta di una neve soffice e delicata.
Per poco più di un giorno quelle vesti permisero a buona parte degli israeliani e dei palestinesi di Gerusalemme di dimenticare i soprusi dell’occupazione e la paura degli attentati. Grazie al candore di quelle vesti, la mia amante rallentò la vita dei suoi abitanti, rendendola, almeno per un giorno, più dolce. Ebrei, cristiani e musulmani chiusero i loro negozi per emozionarsi allo stesso modo di fronte a un evento più unico che raro.
“La neve! La neve!”, sentii esclamare più volte dalla strada. Svegliato dalle grida della gente, sgonfiai le ruote della bicicletta per pedalare sulla neve e raggiungere la Città Vecchia dal Monte Scopus.
Per strada non c’erano automobili ma bambini armati di palle di neve nascosti come cecchini. Le più pericolose erano le adolescenti palestinesi, sorridenti come non mai ma appostate dietro la fermata dell’autobus del cimitero inglese della Prima Guerra Mondiale e pronte a bombardare di neve il primo malcapitato.
Poi l’incontro con la mia amante, avvenuto sotto una Porta di Damasco bianca come se fosse stata spostata in Russia, e la paura di essere colpito dalle palle di neve lanciate dai ragazzini palestinesi occultati sopra i tetti delle case.
Colto dal freddo e da una breve nevicata, presi riparo dentro uno dei tunnel del Muro del Pianto, accanto a centinaia di ebrei ultra-ortodossi intenti a pregare imperterriti anche sotto la neve. Da qui raggiunsi il Mercato del Cotone, un’antica galleria coperta costruita in periodo Mamelucco come mercato del cotone, e oggi uno degli ingressi più importanti alla Spianata delle Moschee.
Mi unii a un gruppo di uomini palestinesi seduti attorno a un fuoco e impegnati a bere tè, a strofinarsi le mani per scaldarsi e a parlare d’affari, donne e problemi. Dopo aver tentato di parlare arabo per più di un’ora, mi alzai per tornare a casa, e loro, sorridendo, alzarono i bicchieri di tè e i boccagli del narghilè in segno di saluto.
Sulla via di casa mi ritrovai sullo stesso punto dove, quattro anni prima, avevo salutato la mia amante alla fine del nostro incontro, fotografandola per la prima volta. Presi la macchina fotografica e scattai una foto ritraente la stessa Cupola della Roccia, lo stesso minareto, le stesse parabole satellitari, le stesse palme e lo stesso insediamento israeliano di quattro anni prima. La mia amante non era cambiata, si era semplicemente vestita in modo diverso.
Gerusalemme, Gennaio 2013
Testo e Foto: Alessandro Di Maio/@alexdimaio