Il vecchio e il nuovo New Deal
Capire e interpretare l’America è difficile. Lo è anche per chi è cresciuto in Europa con miti, simboli, oggetti e modi di vita Made in USA. E’ necessario esplorare il Paese da cima a fondo, vivere la lentezza, le tradizioni, la purezza e il conservatorismo dell’America rurale, e fare propria la rapidità e la filosofia della vita urbana.
Imparare il significato di Stati Uniti d’America è calarsi nella religione civile americana, nell’insieme di principi e valori scritti al momento dell’Indipendenza per sancire una nuova fase, un vita nuova per un uomo bisognoso di libertà.
Sono principi e valori che ancora oggi costituiscono le basi dell’essere americano; le chiavi della storia e dell’evoluzione del popolo statunitense, che anche se messi da parte da una certa classe politica in alcuni momenti storici, rimangono i valori delle nazioni che compongono gli Stati Uniti.
Così, quando nel bel mezzo della grande crisi economica definita “la grande depressione” fu necessario ribadire quei concetti, riaffermarli e realizzarli con una politica rivolta ai cittadini e un’economia al servizio dello Stato e del bene pubblico, l’allora presidente Franklin Delano Roosevelt pronunciò questa frase: “The test of our progress is not whether we add more to the abundance of those who have much, it is whether we provide enough for those who have too little”.
“La prova del nostro progresso – affermò il presidente - non sta nell’aggiungere di più all’abbondanza di chi ha già molto, ma nel fornire il sufficiente a coloro che hanno troppo poco”. Con questa frase Roosevelt volle costruire un nuovo patto con gli americani, aprire un nuovo corso. Era il New Deal.
Quelle parole sono oggi scolpite su un blocco di pietra collocato nel parco dedicato all’ex presidente, tra i memorial di Lincoln, Washington e Jefferson. Quella locuzione riecheggia agli angoli delle strade delle grandi metropoli statunitensi, in molte case di periferia, tra i salotti dell’alta borghesia progressista, nelle discussioni tra le anziane sedute sugli autobus, tra i giovani attivisti, e sui mass media.
Come affermò Tamia Booker, allora direttrice esecutiva del College Democrats of America, “gli otto anni di Bush hanno causato una crisi più grave di quella del 1929 perché non limitata alla sola economia, ma anche alla cultura e politica dell’intero Paese”. E’ per questo che le elezioni del 2008 fecero sentire davvero il desiderio di cambiamento, la necessità di far ripartire il Paese iniziando dalla base, con trasparenza e giustizia, con regole eque.
Le candidature di Hillary Clinton e Barack Obama, e i sondaggi che davano ad entrambi la certezza di poter puntare seriamente alla Casa Bianca amplificarono tutto ciò. In quei frangenti l’America comprese di essere in crisi e sperò in un nuovo New Deal.
“Noi giovani vogliamo un cambiamento – affermò Mark Steiner, un giovane studente americano incontrato all’università di Philadelphia il giorno delle primarie democratiche – senza di esso l’America non sarà più quella che è sempre stata e noi, prima o poi, ci ritroveremo a patire la fame come nel ‘29”, proprio come gli americani e le americane ricordate da due opere scultoree nel Franklin Delano Roosevelt Memorial Park: da una parte una coppia di anziani sull'uscio di casa, scheletrici, stanchi, moribondi, con lo sguardo perso nel vuoto lui, con i seni flaccidi e le mani vuote lei; dall’altra cinque uomini in fila indiana forse davanti all’ufficio assunzioni, forse davanti al panificio per un po’ di pane da portare a casa.
Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008
Il testo contnuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 29 Aprile 2009