Il Giorno del Ricordo non voluto
Avevo promesso a me stesso di non scrivere sull’Olocausto. Il motivo non lo saprei nemmeno spiegare, ma sta di fatto che adesso, nel Giorno della Memoria, nella Settimana del Ricordo, non ho saputo resistere alla tentazione di esprimere la mia opinione.
Il mondo - almeno quello ufficiale, accademico, politico - ha dedicato il 27 Gennaio al ricordo dell’umanità più spregevole, assurda e cattiva apparsa in 200mila anni di storia dell’uomo. Ricordare significa rispettare le vittime, riflettere sulla faccia più inumana dell’umanità, comprendere il perenne rischio della recidività delle azioni umane. Ricordare per ricordare non serve a niente. È necessario capire, agire, evitare che simili azioni possano ripetersi.
Da quando mi sono trasferito a Gerusalemme, concentrando i miei sforzi giornalistici sul Vicino e Medio Oriente, sul conflitto arabo-israeliano, sulla condizione dei palestinesi, sull’Islam e sulle relazioni interreligiose, parlare di Olocausto è diventato difficile.
Non tanto per il negazionismo del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, né per le idee xenofobe che serpeggiano in qualche movimento e partito politico mediorientale, ma per l’indifferenza generale che il mondo arabo prova verso l’Olocausto, e per la tesi secondo cui quanto successo in Europa tra il 1933 e 1945 sia paragonabile alle sofferenze patite dai palestinesi dalla nascita dello Stato di Israele a oggi.
Mi spiego meglio. Il negazionismo di Ahmadinejad, benché grave e pericoloso, non rappresenta una particolarità mediorientale perché di piccoli Ahmadinejad, convinti che Olocausto sia un’invenzione sionista per la conquista della Palestina e del mondo, l’Europa ne è piena. Io stesso, nel 2007 ne incontrai uno a Budapest. Si chiamava Attila, aveva 55 anni e, sventolando in aria un giornale negazionista, con la sicurezza di un ragioniere diceva che “i forni crematori non erano mai esistiti” e che “gli ebrei erano morti sotto le bombe come tutti gli altri”.
Stessa cosa per la retorica xenofoba e razzista presente sì in Medio Oriente, ma assai comune in qualsiasi paese, società e cultura. Le decine di copie del Mein Kampf di Adolf Hitler nelle vetrine delle librerie di Ramallah e Nablus non costituiscono una particolarità né un’eccezione, perché abbondano anche in Europa.
Ciò che invece vedo prepotentemente affermarsi è l’indifferenza araba nei confronti dell’Olocausto, l’assenza di empatia nei confronti delle vittime, l’idea che l’occupazione israeliana della Palestina sia lo sterminio nazista di oggi.
Majd, una 25enne palestinese vicina al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina incontrata in un pub di Ramallah, esprime bene questo punto: “La sofferenza degli ebrei non è di mio interesse. Noi palestinesi non abbiamo né provocato né voluto il loro Olocausto, ne abbiamo solo subito le conseguenze perché quelli che una volta erano le vittime adesso sono i nostri carnefici. Noi palestinesi siamo gli ebrei di oggi”.
È una linea che segue in modo intrinseco il favore verso la causa palestinese. È presente tra buona parte della popolazione di Libano, Siria, Giordania ed Egitto, che nutre una solidarietà sincera nei confronti dei palestinesi; è presente nei governi di quei paesi arabi che strumentalizzano il conflitto israelo-palestinese per mantenere la propria pace sociale interna e garantire al proprio paese visibilità internazionale.
È presente in numerosi partiti politici e movimenti nazionalisti arabi e, soprattutto, nella propaganda filo-palestinese. È come se ci fosse la volontà di far perdere all’Olocausto la triste unicità per cui è famoso in modo tale che, da male assoluto, l’Olocausto sia considerato un conflitto qualsiasi, uno tra i tanti, simile a qualsiasi altro.
Non voglio utilizzare questo post per entrare nel merito del conflitto israelo-palestinese (so che non servirebbe a niente) e non voglio nemmeno sminuire le sofferenze e le ingiustizie patite dalla popolazione palestinese dall’occupazione israeliana della Cisgiordania e dal blocco alla Striscia di Gaza, ma per modalità, numeri, freddezza, pianificazione, cattiveria, ideologia e mille altri fattori, l’occupazione israeliana della Palestina non può e non deve essere paragonata all’Olocausto.
Se si fa, se si paragonano o accostano i due eventi, si confondono le carte, i punti di riferimento, e non saranno gli ebrei o gli israeliani a perderci, non saranno nemmeno i palestinesi o gli arabi a guadagnarci. Tutti noi, tutto il mondo perderà, e il sacrificio di quei sei milioni di persone sarà totalmente inutile.
Il mio disappunto è diretto verso quelle persone che, annebbiati dalla militanza politica, dall’amore verso gli schieramenti semplici (bianco-nero; giusto-sbagliato; bene-male), dall’idea di avere una propria immutabile conoscenza e visione della realtà circostante o dall’idea di sembrare progressisti a tutti i costi, non riescono ad accettare il Giorno della Memoria “perché - così dicono - le vittime sono diventate i carnefici”.
C’è qui lo fa in modo ancora più subdolo, accettando sì il Giorno della Memoria ma aggiungendo postille, condizionali, slogan e vignette pubblicate sui giornali e sui social networks. Qualche esempio? “Giorno della Memoria un cazzo, prima terminate il massacro in Palestina e poi ne riparliamo”, “Giorno della Memoria corta”, “Dopo sessant’anni di genocidio in Palestina è il giorno dell’Alzheimer”.
Visto che nei libri di molte scuole mediorientali l’Olocausto non è nemmeno menzionato, è possibile scusare chi ha studiato in paesi con regimi autoritari e manuali di storia strumentalizzati politicamente, ma chi è cresciuto in paesi più o meno democratici, studiando l’Olocausto sin dalla tenera età, non può sottrarsi a una rielaborazione storica e apolitica dei fatti ed a un esame di coscienza sincero per il bene suo e dell’umanità.
Testo e foto: Alessandro Di Maio
Gerusalemme, 27 Gennaio 2012