Il diplomatico Pinkas: “Obama frena Israele sull’attacco all’Iran” (INTERVISTA)
Intervista di Alessandro Di Maio pubblicata sull’edizione cartacea del quotidiano Libero il 19 Marzo 2013.
Alon Pinkas è un diplomatico israeliano, già console generale a New York dal 2000 al 2004 e consigliere per la politica estera dell’ex primo ministro Ehud Barak e di altri tre ministri degli esteri israeliani, tra cui Shimon Peres.
Dopo il Summit di Camp David ha preso parte ai vari negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. È la persona giusta per chiedere un’opinione sulla visita di Barack Obama in Israele che inizierà domani.
Perché dopo un mandato e una visita in Medio Oriente nel 2009, il presidente Barack Obama decide di venire in Israele proprio adesso?
«Ci sono quattro possibili spiegazioni. La prima è che, ritenendo fondamentali e critici i prossimi 6- 8 mesi per risolvere la questione dell’Iran nucleare, Obama tenterà di spiegare a Netanyahu la propria politica sulla questione, invitandolo a evitare di minacciare un attacco militare contro Teheran, convincendolo dell’importanza della diplomazia e assicurandolo sulla reale possibilità di compiere un’azione militare qualora ce ne fosse bisogno. Credo che Obama voglia mettere in chiaro che, qualora ci fosse la necessità di un attacco, questo dovrà essere lasciato agli Stati Uniti, e non a Israele perché potrebbe complicare le cose».
Crede davvero alla possibilità di un’azione militare contro i siti nucleari iraniani?
«Sì, le possibilità ci sono davvero, ma non adesso. Se ne riparlerà alla fine di quest’anno».
Quali sono gli altri motivi che portano il presidente Obama a Gerusalemme?
«Prima di tutto l’instabilità nell’intera regione, in particolare in Siria e in Egitto, ma anche in Giordania e nei Territori Palestinesi. Obama sa che la situazione non può essere risolta da Washington, come nel caso della Libia. Inoltre effettua questo viaggio all’inizio del suo secondo mandato, nel momento di maggior forza politica, per poter dire “sono stato lì, ho parlato con le parti, ma adesso lascio la questione al Segretario di Stato John Kerry e mi occupo della politica interna americana”.
L’ultima spiegazione è del tutto elettorale. In vista delle elezioni del Congresso nel 2014, con questo viaggio Obama spera di evitare che il Partito Democratico sia accusato di non aver appoggiato Israele».
Quindi Obama non è venuto per riaprire il processo di pace?
«Obama si limiterà a parlare con le parti e si offrirà come mediatore, ma affinché l’America possa tornare a essere direttamente coinvolta nel processo di pace israelo-palestinese è indispensabile che le due parti tornino in modo serio al tavolo negoziale».
Come considera le relazioni politiche e personali tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Obama?
«Le relazioni personali non sono buone, segnate negli ultimi anni da numerosi screzi e dalla reciproca mancanza di fiducia. Tuttavia, entrambi sono consapevoli di dover lavorare insieme su temi come l’Iran e la Siria. Per farlo è essenziale un certo livello di fiducia reciproca e, soprattutto, dialogo politico. Ma continueranno a non piacersi».
Gli Stati Uniti come vedono l’Egitto dei Fratelli Musulmani?
«L’America è sospettosa dei Fratelli Musulmani, ma non ha altre possibilità se non quella di offrire al presidente egiziano Morsi il proprio supporto».
In Siria si combatte da due anni. C’è il rischio che Israele possa partecipare al conflitto? Quali sono gli interessi israeliani in Siria?
«È bene dire che Israele non può influenzare la situazione siriana, ma se ci fosse un trasferimento di armi chimiche dall’esercito siriano ai miliziani di Hezbollah in Libano, questo sarebbe considerato un casus belli e darebbe certamente il via a un’azione militare israeliana sicura e imprevedibile nel tempo e nella forma».
Da ex consigliere per la sua politica estera, come giudica l’era di Ehud Barak da pochi giorni giunta al termine?
«Da politico e primo ministro Barak non ha avuto molto successo. È durato poco tempo, meno di quanto ci si aspettasse, ma ha fatto due cose molto importanti: il ritiro totale delle forze militari israeliane dal Libano nel maggio del 2000 e il Summit di Camp David nel luglio dello stesso anno con Arafat e Clinton, non riuscito per la mancanza di accordo sulla struttura finale del trattato di pace e sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Come ministro della Difesa, non c’è dubbio: è quello che ha saputo fare meglio perché assolutamente qualificato. Rende più sul campo che nell’arena politica».
Come interpreta l’assenza dei partiti ultra-ortodossi nel nuovo governo Netanyahu?
«Anche se il governo è privo di partiti ultra-ortodossi, è importante notare che tra gli eletti del Likud e di HaBayit HaYehudi ci sono tanti politici religiosi. Non giudico un governo dal numero delle persone religiose e dei partiti religiosi che lo compongono, ma dalla sua politica. Per questo sono convinto che questo nuovo esecutivo non avrà una politica diversa da quella del precedente governo. Non bisogna avere illusioni, siamo di fronte a un governo più a destra rispetto a quello precedente».
Non ritiene che un governo con Lapid possa dare una svolta laica al Paese?
«Non credo. Sono numerosi gli israeliani che nutrono speranze in questo senso, ma non mi aspetto alcuna svolta laica».
Crede alla soluzione “Due Stati per due popoli”?
«Credo che per quanto complessa, sia l’unica soluzione disponibile. Le altre semplicemente non esistono».
Intervista di Alessandro Di Maio pubblicata dal quotidiano Libero il 19 Marzo 2013.