04.01.2011 Alessandro Di Maio

I giovani elettori statunitensi

Il Pew Research Center è un organizzazione no-profit e non politica americana nata nel 2004 dall’accorpamento di fondazioni e associazioni caritatevoli create dai Pew, una vecchia famiglia di petrolieri.

L’istituto conduce ricerche e statistiche periodiche sulla vita culturale, sociale e politica degli americani negli USA e nel mondo, per diramarne i risultati a media e istituzioni pubbliche, tanto che sul suo sito internet il Pew si definisce un fact tank, un serbatoio di fatti, dati e informazioni.

L’ingresso del Pew Center di Washington D.C. sfoggia il meglio del mobilio ergonomico: uffici spaziosi illuminati da grandi finestre e scrivanie, sedie e librerie di legno levigato e colorato di verde e arancione.

Nell’ultima stanza in fondo, appoggiato su una lunga scrivania a forma di U vi era Carroll Doherty, direttore associato del Pew Research Center. Con una mano teneva un portatile Mac, con l’altra salutava i presenti. Vestiva una giacca grande quanto il suo busto da uomo alto 1.80 cm e quando camminava spostava l’aria nella stanza.

Sistemò il computer su una tavolinetto, abbassò la tenda sulla finestra e si lasciò intervistare promettendo di rispondere alle domande e di presentare la situazione demografica e sociale di quella che definì “l’opinione pubblica americana che sta votando il suo nuovo presidente”.

“L’esame delle tendenze degli americani a seconda dell’età anagrafica necessita una distinzione fondamentale che non può non essere anagrafica. Per questo definiamo Baby Boomer gli americani nati tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 1964. Quelli nati nei periodi 1964-1980 e 1980-1990 - continuò Doherty con voce grave - appartengono rispettivamente alla Generazione X e Generazione Y che possono allungarsi fino agli americani nati dal 1990 in poi e appartenenti alla c.d. iGeneration” perché cresciuta con strumenti digitali e internet.

La fine della Seconda Guerra Mondiale, la Guerra in Vietnam, le marce per i diritti civili, le presidenze Bush e Clinton, le Guerre del Golfo, l’11 Settembre 2001: sono tutti eventi che segnarono le differenze sociali, culturali e politiche di un paese che dal 1977 vede giovani nati e cresciuti in famiglie etnicamente sempre più eterogenee e con genitori separati.

Doherty sfoglia un grafico dopo l’altro. Il primo ordina sugli assi cartesiani l’età degli elettori americani con le percentuali di voti ai due maggiori partiti politici. “In poche parole - disse - più sei giovane più voti democratico, anche se dai trenta fino ai settant’anni il trend è in salita per il Partito Democratico e in discesa per il Partito Repubblicano”. Poi si diventa anziani, conservatori ed elettori dell’elegante elefante repubblicano

“Tra gli statunitensi i giovani sono tra i più favorevoli ai matrimoni gay e ai governi forti, ma è anche vero che oggi vogliono il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq”, dichiarò Doherty toccando la foglia più grande di una delle due piante nella stanza. Ma solo sette anni fa, un anno dopo l’11 Settembre, il 69% dei giovani statunitensi tra i 18 e 29 anni risultava essere favorevole all’intervento in Iraq, mentre il consenso diminuiva fino al 51% tra gli ultrasessantenni passando e al 63% tra gli adulti di mezza età.

Dati che non sorprendono nessuno, soprattutto se si considera l’interesse e la partecipazione alla politica. Alla domanda “Segui la politica?”, solo il 30% dei 18enni ha risposto positivamente, a fronte di un 50 e 70% tra chi ha rispettivamente 50 e 70 anni.

Tuttavia, se i giovani sembrano essere poco interessati alla politica è anche vero che sono la fascia più attiva nella raccolta del voto: i 18-20enni dichiarano di votare ad ogni elezione (56% rispetto al 26% di chi ha più di 26 anni), di invitare gli altri ad andare a votare (40% contro il 35% di chi ha più di 26 anni) e di contribuire economicamente alla campagna elettorale del partito di appartenenza (7% contro il 5% di chi ha oltre 26 anni).

“Se gli Stati Uniti di ieri sono diversi da quelli di oggi, lo stesso vale per i giovani, sempre più tolleranti alle differenze, liberal e libertari. Barack Obama rappresenta questo cambiamento, rappresenta i giovani statunitensi”.

Poi Doherty concluse dicendo che “il voto dei giovani potrà essere determinante solo se la partecipazione di questa piccola fascia di elettori sarà elevata. Qualora fosse così, e Barack Obama fosse eletto, i giovani americani si aspetterebbero un cambiamento radicale e generale del sistema”.

Perché i giovani americani sono più vicini al Partito Democratico che a quello Repubblicano? Il PD è più prossimo alle istanze radicali insite nella natura ribelle di ogni post-adolescente? Può darsi, ma gli Stati Uniti d’America non sono l’Europa e il Partito Democratico non ha nulla a che fare con i partiti socialdemocratici e socialisti europei.

Per trovare una risposta alla domanda contattai Karlo Barrios Marcelo, un ricercatore associato del CIRCLE (Center for Information and Research on Civic Learning and Engagement), un centro di informazione e ricerca sull’attività civica e politica dei giovani americani tra 15 e 25 anni.

Nato nel 2001 per volontà e donazione del Pew Charitable Trusts e del Carnegie Corporation of New York, e con sede all’Università del Meryland, “il CIRCLE - spiegò Karlo Barrios - conduce ricerche, raccoglie informazioni e organizza eventi, progetti e manifestazioni con il fine di spronare la gioventù americana a partecipare attivamente alla vita civica e politica del paese”.

Un esempio è Head Count , una organizzazione politicamente neutrale che utilizza la musica per incitare i giovani americani ad iscriversi alle liste elettorali e partecipare alle elezioni. “E’ anche così che funziona in America - ammette Barrios. I giovani adorano la musica allora è anche con la musica che porgiamo loro la politica”.

“I giovani americani tendono a votare più per il Partito Democratico perché è questo il partito che negli ultimi anni ha speso più energie per catturare il voto giovane. A questo fine i Democratici spendono tre volte di più dei loro colleghi Repubblicani, i quali, quando spendono, spendono male”.

Questo però non è sempre vero. Barrios lo ammise. “Negli anni Ottanta i giovani elettori americani votarono per Ronald Reagan, ma in linea di massima, e oltre al fatto che votare PD sembra essere più ‘cool’ che votare PR, la maggior parte dei giovani elettori statunitensi votano tradizionalmente democratico”.

Ma i democratici non sono bravi solo a conquistare il voto dei giovani, riescono molto bene ad ottenere l’appoggio dei nuovi immigrati ed in genere di tutti i gruppi etnici che compongono il corpo elettorale. “Se è vero che i democratici possono quasi sempre contare sulla maggioranza degli elettori afro-americani (il 13% dell’elettorato statunitense, ma solo in minima parte va a votare), è anche vero che il Partito Democratico ha elaborato negli anni una campagna elettorale vicina agli ispanici”. Una strategia vincente visto che, secondo i dati del Pew, a differenza degli afro-americani che tendono già adesso a diminuire di numero, gli ispanici aumenteranno drasticamente nei prossimi anni, diventando sempre più decisivi nelle scelte politiche del paese.

Barrios Marcelo aprì il computer per mostrare alcuni grafici del National Election Pool Office. Il primo confermò quanto detto fino a quel momento: in tutte le elezioni avvenute dal 1992 al 2006 gli elettori democratici compresi tra 18 e 29 anni costituirono quasi sempre la maggioranza dei votanti del PD.

Il secondo mostrò un panorama più dettagliato. Basato sui dati delle elezioni di medio mandato del 2006, esso mostrò da un lato come tra i democratici i giovani fossero maggiormente propensi a votare rispetto ai democratici più adulti; dall’altro un dato interessante: nella storia delle elezioni statunitensi i giovani repubblicani non raggiunsero mai la maggioranza dei votanti nel loro partito. La tendenza continua ancora oggi. “I giovani democratici sono il 55% dei votanti del PD, i coetanei repubblicani sono solo il 35% dei votanti repubblicani totali”.

Il terzo grafico fu ancora più illuminante. Tra le elezioni del 2004 e del 2006 il Partito Democratico riuscì a conquistare il 6% in più di voti giovani, passando dal 37% del 2004 al 43% del 2006. Nelle stesse elezioni però il Partito Repubblicano peggiorò il proprio rapporto con i giovani elettori, passando dal 35% del 2004 al 31% del 2006 del loro supporto.

Ciò si spiega non soltanto dalle diverse strategie di marketing dei due partiti, ma dalla politica del Presidente George W. Bush e dal livello di gradimento espresso da cittadini. Secondo Barrios Marcelo infatti, a metà 2008 i giovani americani tra i 18 e 29 anni erano quelli che meno approvano la presenza di truppe statunitensi in Iraq e quelli che più disapprovano la politica dell’amministrazione Bush.

Se il 17% apprezzava fortemente l’impegno USA in Medio Oriente e il 43% lo criticava con rigore (rispetto ad una media del 19% e del 39% tra tutti gli elettori), solo il 9% si diceva entusiasta della politica del Presidente e il 34% si dichiarava arrabbiato (rispetto ad una media del 12% e del 29% tra tutti gli elettori di tutte le età).

Le elezioni primarie in Pennsylvania non ebbero mai l’attenzione che avrebbero dovuto meritare. “Il 26% della popolazione è giovane - affermò il ricercatore. E’ una percentuale che rispecchia quella federale e che rende importante il risultato della loro partecipazione al voto”.

Per questo motivo il comitato elettorale di Barack Obama fu formato da giovani attivisti capaci di parlare ad altri giovani e spingerli ad iscriversi nelle liste elettorali e votare. “Obama deve accaparrarsi il voto giovane; se ci riuscisse la sua vittoria sarebbe inevitabile sia in Pennsylvania che in tutti gli Stati Uniti”.

Eppure lo scenario sembrava attuale. Da quando ero negli Stati Uniti non si faceva altro che parlare di Obama, dell’uomo nero, del primo afro-americano davvero vicino alla presidenza. I nomi di Hillary Clinton e dei candidati repubblicani mancavano dalla strada e dalle conversazioni quotidiane. Non mancavano invece i supporters di Obama agitare striscioni, attaccare adesivi, sventolare bandiere, suonare strumenti musicali per le strade.

Lo slogan “Yes, we can!” e le fotografie di Obama con lo sguardo pieno di speranza rivolto al futuro non mancavano mai, ne sui muri e sulle finestre, ne nelle fermate degli autobus e sui pali della luce.
 

Tratto da “Diario di un giornalista per la prima volta ufficiale”
Italia e Stati Uniti d’America
Marzo-Maggio 2008

Il testo contenuto in questo post fa parte della tesi di laurea di Alessandro Di Maio dal titolo "USA 2008: elezioni primarie e giovani americani" ed è stato per la prima volta pubblicato su Alexander Platz Blog il 13 Aprile 2009