I giorni dell’ambasciata
Nel 1946 il governo degli Stati Uniti d’America acquistò dall’ancor debole Stato italiano il complesso di edifici che oggi costituisce l’Ambasciata Generale degli Stati Uniti in Italia.
Palazzi, giardini, mura furono in anni diversi proprietà residenziali di nobili romani, ecclesiastici d’alto rango e sabaudi di fine Ottocento. Se nel 1883 i giardini dell’antica Villa Ludovisi vennero quasi del tutto distrutti dai loro nobili proprietari per attività speculativa, negli anni Trenta del Novecento l’Ambasciata USA si trasferì a Palazzo Margherita (così chiamato perché dimora della regina omonima).
Contemporaneamente, tra il cancello ancora intatto di Villa Ludovisi e il lato interno di Palazzo Margherita, Benito Mussolini fece costruire un edificio così massiccio da renderlo ideale per la sede nazionale dell’Istituto Nazionale Assicurazioni.
La somma dei perimetri dei palazzi appena citati dà come risultato approssimativo il complesso politico-strategico americano più importante d’Italia, una delle più grandi ambasciate USA al mondo, una delle più belle.
E’ un quartiere di Roma, una città nella città, un pezzo di politica e cultura statunitense incastonata nelle perle della storia architettonica italiana, nei ricordi di statue, mura e affreschi antichi che sempre videro, ascoltarono e vissero.
Lavoravo perlopiù agli uffici del Public and Cultural Office al secondo dell’ex sede centrale dell’INA, ma collaboravo anche con l’Information Resource Center (IRC) al piano terra dello stesso palazzo.
Non era la mia prima esperienza in campo diplomatico ma per la prima volta riuscivo ad associare due dei miei maggiori interessi: giornalismo e diplomazia. Inoltre, superare i cancelli dell’ambasciata del paese più potente al mondo, conoscere e affiancare persone di grande umanità ed esperienza professionale costituiva per me motivo di orgoglio. Il tutto confermava la direzione che anni prima avevo dato alla mia vita.
All’ambasciata il lavoro procedeva bene. Eravamo un eccezionale gruppo di lavoro. Italiani e americani insieme per imparare dal lavoro in ambasciata. In particolare Domenica ed io eravamo molto affiatati.
In ambasciata molti pensavano ad un inciucio amoroso tra noi due, ma la verità è che ci volevamo bene e rispettavamo come colleghi. Tra me e quella bella, simpatica, seria, onesta ragazza italo-americana ci furono solo due cose: una stretta collaborazione lavorativa e la nascita di una sincera amicizia che continua ancora oggi.
Un giorno ci mandarono a Villa Taverna, la casa dell’ambasciatore. Avremmo dovuto fare delle fotografie che sarebbero state pubblicate in una rivista americana specializzata in arredamenti di lusso. Ci andammo con un furgone nero antiproiettili. Quando arrivammo ci presentarono all’amministratore della villa, un elegante e fine siciliano di trent’anni che ci portò in giro per la residenza.
Le stanze erano straordinariamente arredate con mobili antichi e quadri “scelti e acquistati personalmente dalla moglie dell’ambasciatore Spogli, una vera amante dell’arte e delle aste”, come egli stesso disse di fronte un quadro.
Il siciliano ci fece da Cicerone portandoci ovunque: nel piccolo cineteatro voluto da un precedente ambasciatore, nel giardino dotato di forno a legno per la pizza e nella suite presidenziale dove il Presidente USA e la first lady alloggiano durante la loro permanenza in Italia.
Dalla finestra della suite ammirai la vista del cupolone di San Pietro, quando sentii l’amministratore borbottare. Mi voltai e lo vidi imprecava con le mani di fronte al minifrigo. Prese il telefono e chiamò qualcuno. Quando gli risposero il siciliano disse che il minibar conteneva una bottiglietta di succo di frutta meno del previsto. Ordinò di provvedere. Poiché non era previsto nemmeno un lontano arrivo del presidente, quello scrupolo mi sembrò esagerato.
Quando fu l’ora di andare incontrammo la moglie dell’ambasciatore. Vestita da abiti leggeri, quasi trasparenti, rientrava in Villa. Il siciliano ci presentò. Lei con aria solenne ci diede la mano uno alla volta e ci ringraziò per le fotografie augurandoci una buona giornata. Salutammo il maggiordomo palermitano, risalimmo sul furgone diretti in ambasciata.
Pochi giorni dopo andai alla festa di Myra, una straordinaria e simpatica statunitense di Washington che lavorava alla Biblioteca dell’ambasciata. Era quella che viaggiava più spesso. Nera come il carattere forte e lo spirito libero e critico, Myra avrebbe lasciato Roma a giorni. La sua missione diplomatica sarebbe finita poco dopo la mia, ma se lei ne avrebbe iniziata immediatamente un’altra (probabilmente in Ghana), io ero alla frutta.
Alla festa c’era tutto il reparto culturale e giornalistico dell’ambasciata. Anche questa volta ci andai con Domenica. Con noi c’erano anche Sergio, Roberto e Michael, un italo-americano di New York City, economista e stilista amico di Domenica. Quella sera si che mangiammo bene. Piatti tipici e dolci siciliani innaffiati con del buon vino rosso. Parlammo tutti insieme per ore, ridendo e ballando come matti, fino a quando tornammo a casa barcollando.
Tratto da “Diario di un soggiorno romano”
Gennaio-Febbraio 2008