03.12.2012 Alessandro Di Maio

Good morning “Palestine”! Reportage da Ramallah

Il cielo sui campi profughi del checkpoint di Qalandia, tra Gerusalemme e Ramallah, è segnato dai fumi dei giochi d’artificio. “Un matrimonio o i festeggiamenti per il voto all’ONU?”, domando a Jawad, l’autista del taxi che mi sta portando a Ramallah. “Entrambi”, risponde guardandomi dallo specchietto retrovisore. “Un qualsiasi padre palestinese sarebbe felice allo stesso modo sia nel vedere sposata la propria figlia, che nell’assistere alla nascita dello Stato palestinese”.

La strada che porta a Ramallah sembra non avere nulla di diverso dagli altri giorni: l’aria fresca delle colline, le persone di ritorno a casa con la spesa in mano, i rifiuti agli angoli dei marciapiedi e i cartelloni pubblicitari della compagnia telefonica Wataniya. Tutto sembra uguale, ma è come se le persone avessero fretta, come se avessero tutti un appuntamento imperdibile.

Jawad dice che l’appuntamento è con al-Arabiya, l’emittente televisiva satellitare saudita che trasmetterà in diretta il discorso alle Nazioni Unite del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Mahmoud Abbas, e la votazione dell’Assemblea Generale dell’ONU sullo status di osservatore permanente della delegazione palestinese.

Quando arriviamo a Ramallah, Jawad mi lascia sotto un’enorme bandiera palestinese che discende dal tetto di un edificio di quattro piani, nei paraggi di una serie di gigantografie di Yasser Arafat in primo piano e di Mahmoud Abbas mentre cammina verso il Palazzo di vetro.

Un gruppo di ragazzi scherza attorno a un piccolo poster di Abbas ritratto accanto ad una colomba bianca. “Per tappezzare la città in questo modo le tipografie di Ramallah avranno certamente lavorato tutta la settimana, giorno e notte”, dice uno.

Gli slogan in arabo che si sentono per strada sono due: “Mahmoud Abbas è il nostro presidente”, gridato a ritmo incessante dai più giovani, e “Palestina 194”, lo stesso utilizzato lo scorso anno, quando l’ANP tentò senza successo di ottenere lo status di full member delle Nazioni Unite.

Allora il tentativo non ebbe successo per il veto USA al Consiglio di Sicurezza che non permise alla risoluzione di raggiungere il voto dell’assemblea. Oggi l’obiettivo è assai ridimensionato – si chiede lo stesso status goduto all’ONU dalla Città del Vaticano – e si è certi di ottenerlo perché non è necessario il voto unanime del Consiglio di Sicurezza, né quello dell’assemblea.

Quanti tra la folla sono consapevoli che il voto darà sì più poteri ai delegati diplomatici palestinesi all’ONU ma non farà nascere alcuno Stato? Sono pochi, pochissimi. D’altronde i loghi, gli slogan e le promozioni televisive utilizzate in Cisgiordania dall’Autorità Nazionale Palestinese utilizzano termini come “Stato di Palestina”, “Stato Palestinese”, “Palestina 194mo Stato”.

Lina al-Khalil è una ragazza palestinese cresciuta in Gran Bretagna. È contenta, ma sa che il voto non cambierà la situazione e che “benché si tratti di una vittoria politica dell’ANP, l’enfasi delle autorità palestinesi serve ai fini politici interni, per rafforzare il partito Fatah agli occhi dei palestinesi”, che proprio nelle settimane precedenti, durante l’operazione militare israeliana su Gaza, Pilastro di Difesa, avevano solidarizzato con il partito concorrente Hamas.

Piazza Arafat, nel cuore di Ramallah, è il centro delle celebrazioni. Il rumore e le grida sono assordanti. Uomini allegri e spensierati ballano, sventolano bandiere, cantano, saltano e si abbracciano, mentre le donne, quasi tutte velate, sorridenti e pronte a battere le mani alla prima nota musicale, osservano composte dai margini della piazza.

Le persone strabordano dai balconi e dai tetti delle case per seguire le immagini proiettate sullo schermo gigante. Quando sotto gli occhi degli astanti compare il volto bianco, paffuto e deciso di Abbas, la piazza esplode in un urlo di gioia: “Abbas, Abbas, il nostro raìs!”.

Poi, quando Abu Mazen prende la parola, la massa di gente accalcata sotto una Luna quasi piena nel cielo limpido della Samaria, si zittisce di colpo. Lo ascoltano tutti, anche i bambini seduti sulle spalle dei genitori e i poliziotti del traffico, oramai lontani dalle loro postazioni.

È il filo diretto tra il popolo palestinese e il successore di Yasser Arafat, proprio nel giorno esatto in cui, sessantacinque anni prima (29 Novembre 1947), quella stessa assemblea dell’ONU approvò il Piano di Partizione della Palestina.

“Abbas non è da solo su quel palco – afferma Omar, studente palestinese all’Università di Birzeit nei pressi di Ramallah. Siamo tutti noi, tramite lui, a parlare al mondo della nostra voglia di pace e della necessità di creare uno Stato palestinese”.

Quando Abbas chiede all’assemblea di “rilasciare il certificato di nascita dello Stato Palestinese” c’è chi si commuove e si strofina gli occhi con le dita per non farsi vedere da chi gli sta accanto.

“La via d’uscita dal conflitto è piccola e si sta restringendo perché il tempo passa e la speranza si affievolisce…noi accettiamo uno Stato Palestinese con Gerusalemme Est come capitale”, ha continuato Abbas ricevendo un applauso dalla piazza tornata animata dalle bandiere e dalle grida della gente.

Quando sul podio sale l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Ron Prosor, da Piazza Arafat partono fischi e insulti. Per alcuni i festeggiamenti finiscono qui, ancora prima del voto. Anche Omar decide di andare via, “gli israeliani dicono sempre le solite cose, ascoltarli non serve a niente”, dice.

Dalle immagini proiettate sullo schermo gigante della piazza si percepisce il nervosismo dell’ambasciatore Prosor. Deve esprimere la posizione del suo governo, ma sa che in quest’occasione l’assemblea gli è contro, sa che la risoluzione passerà, e per questo si esprime mantenendo un sorriso di disagio.

“Invece di venire a Gerusalemme a negoziare, Abbas preferisce venire qui a New York per azioni unilaterali come questa, ma alcun voto dell’ONU potrà rompere il legame millenario tra gli ebrei e la loro patria”, afferma.

Da dietro lo schermo, mercanti ambulanti di olive, lupini e pannocchie cercano di vendere il più possibile. Non conoscono le procedure delle Nazioni Unite, ma percepiscono che il voto è vicino e che devono sbrigarsi. Per questo urlano e sventolano bandiere e immagini con i volti di Arafat e Abbas.

Quando il presidente dell’assemblea chiama i delegati a votare, a Ramallah è notte inoltrata e fa freddo. La piazza tiene gli occhi puntati sullo schermo fino a quando, alla vista del tabellone elettronico con i risultati, riesplode di gioia, commozione e speranza di fronte all’immagine di Abbas abbracciato e baciato dal ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu.

Le vie limitrofe a Piazza Arafat sono vuote e silenziose a tal punto da far suggerire che non tutti siano entusiasti del voto. Ramallah è la roccaforte di Fatah e la maggioranza della popolazione locale sostiene Abbas e la sua iniziativa all’ONU.

Tuttavia, anche a Ramallah e nell’intera Cisgiordania, e perfino a Gerusalemme, c’è chi rifiuta l’impostazione della risoluzione “perché – spiega Hatem, residente a Gerusalemme Est che condivide con me il taxi del ritorno – limita il futuro Stato palestinese entro i confini precedenti alla guerra del 1967, una cosa inaccettabile per i discendenti dei profughi palestinesi del 1948” e per la stessa rivale di Fatah, Hamas, che proprio sull’irrealizzabile diritto al ritorno dei profughi basa la propria radicalità.

All’assemblea dell’ONU gli Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione “perché – ha dichiarato l’ambasciatrice Susan Rice - uno Stato Palestinese può e deve nascere solo con i negoziati tra le parti”.

Gli USA considerano dunque il voto come un’azione unilaterale che non aiuta il processo di pace tra israeliani e palestinesi, ma che rischia di provocare una reazione a catena di azioni unilaterali, come l’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania.

L’upgrade dello status dei palestinesi all’ONU riconosce indirettamente l’esistenza di uno Stato di Palestina – ancora non reale – nei confini del 1967 e con Gerusalemme Est capitale, e dà la possibilità all’ANP di portare Israele alla Corte Penale Internazionale in caso di crimini di guerra o mancato rispetto dei diritti umani.

“Ma per i palestinesi come me – dice Hatem, con la carta d’identità israeliana in mano da mostrare ai soldati del checkpoint - questo voto non cambia nulla, serve solo a fare pressione su Israele per dei negoziati, e a rafforzare Fatah a discapito di Hamas”.

In questi ultimi anni i negoziati non sono andati avanti e sono rimasti fermi agli insuccessi di Annapolis per vari motivi, principalmente perché il governo israeliano di Benjamin Netanyahu ha definito Mahmoud Abbas un partner non di pace, rifiutandosi di sedersi al tavolo negoziale.

Stretto tra i successi politici di Hamas – sempre meno isolata politicamente e in campo internazionale con i riconoscimenti di Egitto, Turchia, Iran, Qatar – e l’impossibilità di sedersi al tavolo dei negoziati con gli israeliani, Abbas ha ritenuto utile recarsi alle Nazioni Unite e ottenere dei riconoscimenti indiretti sull’esistenza dello Stato di Palestina.

Oltre allo status di osservatore permanente, nella strategia dell’ANP rientrano anche la membership ottenuta lo scorso anno all’UNESCO e lo status mancato di membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.

Secondo il governo israeliano la strategia dell’Autorità Nazionale Palestinese sarebbe di ottenere un proprio Stato entro i confini del 1967, non soltanto bypassando il riconoscimento di Israele come “Stato ebraico e democratico”, ma, soprattutto, evitando il negoziato su una terra, quella della Cisgiordania, che le autorità israeliane considerano “disputata tra due parti” e non “occupata” come invece la definiscono i palestinesi.

“Vogliamo vedere il visto sul passaporto”, esclama una delle due soldatesse israeliane al checkpoint. Sono sorpreso. Dal 2009 non me l’avevamo mai chiesto perché andava bene il semplice timbro sul passaporto - di per sé un visto d’ingresso in molti casi.

Jorge, un amico europeo incontrato sull’altro lato del checkpoint, ha avuto lo stesso problema. “Hanno preso il mio passaporto per controllarne il numero sul computer. È la prima volta che mi succede. Quando sarò in aeroporto – continua allarmato –mi faranno molte domande perché sapranno che sono stato in una zona palestinese della Cisgiordania”.

Probabilmente è un caso, probabilmente un segnale. Forse l’intenzione di rafforzare i controlli ai checkpoint anche per gli occidentali a seguito del voto all’Assemblea dell’ONU.

A Gerusalemme Est nessuno festeggia in pubblico. È tardi? Non c’è interesse? Meglio non farlo? Non so, ma i miei vicini di casa guardano il riepilogo di al-Jazeera sul voto, mentre sui muri di Sheikh Jarrah, sotto casa mia, vedo un manifesto in inglese, arabo ed ebraico: “WARNING: This is illegaly occupied land. State of Palestine, 29/11/2012”.

Reportage e foto di Alessandro Di Maio
Ramallah-Gerusalemme