02.01.2011 Alessandro Di Maio

Dorog, la sconosciuta

Dorog è una città dell’Ungheria settentrionale situata a quaranta chilometri dalla capitale Budapest, a breve distanza dalla frontiera Slovacca tra i monti Pilis e Gerecse. Fondato nel 1181 e distrutto dalla successiva invasione ottomana, Dorog era un piccolo villaggio di poche centinaia di anime, pedine dei primi giochi internazionali tra grandi Stati.

Ricostruito e sottoposto all’autorità degli Austro-Ungarici, nel 1765 il villaggio si espanse rapidamente grazie alla nascente industria asburgica, alimentata dalle numerose miniere di carbone presenti nei dintorni e dalla grande disponibilità d’acqua.

Nel 1765 il villaggio fu dotato di una chiesa cattolica in stile barocco e poi nel 1895 di un collegamento ferroviario con la capitale, a cui - dopo la Prima Guerra Mondiale e il Trattato di Trianon che sanciva lo smembramento del Regno d’Ungheria - si aggiunse anche una chiesa calvinista costruita dai minatori giunti dalla Transilvania.

Gli abitanti passarono da poco meno di duemila nel 1910 ai tredici mila di oggi, in un’ascesa dirompente che ha visto il villaggio divenire città nel 1984, lo sviluppo dell’industria mineraria e il suo tracollo nel 2004 con la chiusura dell’ultima miniera di carbone, ingenti danni ecologici causati dall’inceneritore di rifiuti tossici attivo dal 1980 e l’attuale e sempre più numerosa presenza di multinazionali che influenzano la vita della città dando lavoro a migliaia di persone.

Quella di Dorog sembra essere una storia interessante, da approfondire e studiare nei dettagli, ma quando, casualmente, per distrazione, dopo una giornata passata a Budapest, mi ritrovai in piedi immobile in una desolata banchina di catrame, con lo sguardo fisso alla scritta “Dorog”, il mio primo pensiero razionale fu quello di trovare una soluzione per raggiungere il campus dell’Università Cattolica Péter Pázmány dove in quei giorni risiedevo.

Erano i primi di Settembre di una canuta estate ungherese, i miei ultimi giorni nel paese magiaro. Il cielo, coperto omogeneamente da una mantella di nuvole grigie, bagnava la terra con una debole ma costante pioggia.

Mi trovavo su un treno. C’ero salito dalla stazione ferroviaria di Nyugati a Budapest, per raggiungere l’università a Piliscsaba, 30 chilometri più a nord-est. Vedevo il paesaggio dei monti Pilis scorrere veloce attraverso il finestrino del treno. Poi mi addormentai.

Quando mi svegliai il treno continuava ad andare ma non riconobbi il paesaggio fuori dal finestrino. Chiesi aiuto al capotreno che, nonostante non capisse una sola parola d’inglese, mi consigliò di scendere alla prossima fermata perché la mia era già bella che persa.

Fu allora, quando il treno decelerò, che vidi una banchina bagnata, circondata da binari morti e da un edificio rosso con il tetto spiovente, il camino in mattoni, le finestre di vetro e legno e una scritta bianca che diceva “Dorog”.

Scesi dal treno e sentii il portellone del treno chiudersi dietro di me. Mi voltai, il treno partì. Quando si dileguò nella flebile nebbia, mi guardai intorno. Alberi verdi, vecchie locomotive, vagoni arrugginiti e binari conquistati dall’erba circondavano il tutto.

Mi trovavo nella stazione di Dorog, nella piccola stazione ferroviaria di un paese che fino a quel momento non pensavo nemmeno esistesse. Attraversai varie coppie di binari e banchine fino ad arrivare sotto la tettoia di lamiera che affiancava la casa cantoniera.

Le poche persone presenti mi guardarono con curiosità. Mi sedetti su una panchina a lato di un anziano signore e di un ragazzo con la tuta da lavoro sporca di vernice. Dopo pochi secondi mi alzai di scatto attraversando tutta la banchina coperta dalla lamiera, esponendomi per pochi secondi alla pioggia e posizionandomi sull’uscio di quella che doveva essere la sala comandi.

Al suo interno vidi un uomo alla scrivania, illuminato dalla luce verde tipica degli studi forensi. Bussai. Egli alzò il capo e mi fece cenno d’entrare. L’interno era in legno e metallo. C’era caldo e si sentiva l’odore della pioggia.

Nessuno parlava inglese, italiano o spagnolo. Solo ungherese, francese e tedesco. Cercati di arrangiarmi in francese spiegando la mia situazione. Lui capì e mi disse di aspettare due ore per prendere il prossimo treno. Gli porsi la mano per ringraziarlo. Lui si alzò rumoreggiando con la sedia, prese il berretto da capostazione dalla scrivania dove era poggiato e se lo mise sul campo. Poi mi strinse la mano. Fu una stretta forte, decisa, piena.

Lasciata la stanza, esplorai la stazione. I suoi interni erano spogli. Due bambini rincorrevano un cagnolino nella sala d’aspetto, mentre un anziano, certamente il nonno, ordinava loro di fare meno baccano.

Fuori c’era un piccolo chiosco di metallo verde. Un uomo e una donna vendevano alcool, caffè e biscotti alla loro clientela tutta maschile. Tutti uomini in tuta blu e scarponi neri.

Il freddo era pungente. Non avevo libri da leggere o persone con cui parlare, così non feci altro che osservare i presenti e fissare l’orologio della stazione. Vidi passare un adolescente vestito da punk con una bottiglia di vodka. Sulla stessa scia del primo, vidi passare altri due punk, forse suoi amici. Dopo qualche minuto ne passo un quarto.

Quando mancò circa mezz’ora all’arrivo del treno la pioggia si era placata e decisi di dare un’occhiata in giro. La stazione era circondata da un piccolo muretto bianco in cemento. Da lì si staccava un malconcio sottopassaggio. La strada era in terra battuta, piena di buche piene d’acqua.

Quando arrivò il treno fui uno dei primi a salirci. Dal vetro vidi il capostazione uscire dal suo ufficio. Aveva divisa, berretto e paletta. Mi guardò, ci guardammo. Gli feci segno con la mano. Lui ricambiò. Poi il treno si mosse e di Dorog non vidi più nulla.

Tratto da "Diario dal paese magiaro"
Agosto-Settembre 2007 - Questo post è stato pubblicato per la prima volta su Alexander Platz Blog il 6 Novembre 2007