01.01.2011 Alessandro Di Maio

Dire addio a giurisprudenza!

Quel giorno o ero bello oppure mi credevo bello! Vestito con giacca e la camicia preferite, ero accompagnato da una bella cartella di pelle - oggi mia inseparabile compagna. Era mesi che aspettavo quel giorno immaginando come potesse essere la facoltà che avevo sempre desiderato fare, Scienze Politiche. Sulla corriera mattutina incontrai le persone di sempre, quelle che parlano anche quando non c’è nulla da dire e che non permettono di leggere o dormire.

Quella mattina sulla corriera mi domandai se davvero era cambiato qualcosa, ma ebbi la conferma quando, mentre l’autobus gettava fumo fermo in coda, mi voltai verso il grillo parlante, lo guardai negli occhi e facendo l’inequivocabile gesto dello sbadiglio gli feci capire che non era giornata.

I suoi occhi si spalancarono, la sua bocca si chiuse lentamente. Che soddisfazione! Poi feci forza sulle braccia per sollevare “Il giorno della civetta” e lessi fino a quando l’autobus si trovò tra la Chiesa dei Catalani e il ricordo di Lepanto.

Quella mattina mi sentì un leone che scende in strada fiero e deciso, che si gode il sole mattutino sulla faccia. Camminai tra la gente e le auto lasciate “a minchia” sulle strade fino alla fermata degli autobus che immigrati srilanchesi prendono ogni mattina per andare a lavoro, fino a quando mi ritrovai di fronte la Facoltà di Giurisprudenza, un edificio costruito in periodo fascista che per anni era stata la mia prigione.

Adesso, libero e con la cartella di pelle a tracolla, con la spilla della bandiera aborigena attaccata sulla giacca di lino, era da osservatore esterno che guardavo quella costruzione opaca. Tutto era uguale a prima: le belle ragazze sedute sugli scalini, le V al posto delle U in alto, la ragazza che distribuisce volantini per lezioni private, i professoroni in giacca e cravatta poco più in là.

Mancavano due ore all’inizio della mia prima lezione alla Facoltà di Scienze Politiche. Ci sarebbe stata Storia Moderna e non vedevo l’ora di seguirla, di vedere cartine colorate attraverso cui immaginare migliaia di soldati con scudi, spade, archibugi e maglie di ferro attraversare i confini di Stati appena nati, di imperi decadenti, di terre sconosciute.

Riguardai l’ora. C’era tempo per l’ultima visita a legge. Entrai dall’ingresso principale facendo finta di non vedere la “disgraziata dei volantini” come la chiamavano i miei ex colleghi dicendo che portava iella. Passai dritto, facendole quasi vento.

Salì le scale spedito come un veliero. Vidi l’aula dove ebbi il mio primo voto, un’aula povera e triste, fornita di bassi sedili di noce tappezzati di rosso. Ricordai le lezioni fatte in quell’aula, quando il docente di Istituzioni di Diritto Romano ed Esegesi delle Fonti del Diritto Romano - allora preside di facoltà - doveva fermarsi nella spiegazione per il canto di mezzogiorno proveniente dal duomo o per l’assordante silenzio di un’autoambulanza.

Ricordai una viscida stretta di mano dopo il superamento del mio primo esame con un magro 22. Quei ricordi mi dimostrarono che la scelta di fare Scienze Politiche era felice, giusta, seria. Ero felice di allontanami una volta per tutte da quel mondo spento, dalla cerchia di professoroni e dottoroni vestiti in modo impeccabile e bravi a guardarti dall’alto in basso.

Lasciai l’aula dei ricordi per dirigermi in bagno. Quello degli uomini era libero, nell’altro c’era la fila. Misi la cartella in spalla, abbassai la zip dei pantaloni e centrai il bersaglio. Un regalo di addio era necessario. Quella era il mio.

Ridiscesi le scale fino all’ingresso della facoltà. Mi voltai nuovamente, vidi le V al posto delle U e gridai: "Addio, legge!!". Poco dopo mi ritrovai nel nuovo mondo.

 

Questo post è stato pubblicato per la prima volta il 29 Dicembre 2006 su Alexander Platz Blog.