ANALISI. Flotilla, il responsabile politico
Da quando l’esercito israeliano ha attaccato la flottiglia di navi diretta a Gaza, essere vicini ad una causa o appartenenti ad una bandiera – rispettivamente la causa palestinese e la bandiera dello Stato di Israele - potrebbe rendere difficile osservare elementi che, analizzati a distanza e da un punto neutrale, possono rivelarsi importanti per fare luce su quanto successo.
Oltre a voler recapitare gli aiuti umanitari di cui Gaza ha tremendamente bisogno, la spedizione della “Freedom Flotilla” aveva lo scopo di forzare il blocco navale che Israele esercita su Gaza. Infatti, se le NGO internazionali lo considerano illegale, per Israele il blocco è il miglior modo per prevenire il rifornimento militare di Hamas – come successo in passato.
La Turchia, intenzionata a diventare una potenza regionale, e quindi a distanziarsi dal tradizionale alleato israeliano, ha sponsorizzato la spedizione umanitaria sperando in una reazione israeliana che potesse darle una motivazione ufficiale per percorrere un nuovo cammino strategico nella regione mediorientale.
Rompere un blocco navale imposto da uno degli eserciti più tecnologicamente avanzati del mondo non è cosa facile, soprattutto se si tenta di farlo con navi civili piene di medicinali, sacchi di cemento e sedie a rotelle.
E’ difficile credere che gli attivisti sperassero davvero di poter arrivare al porto di Gaza senza essere fermati dalla marina israeliana. Per questo motivo, se il loro sembrerebbe essere stato più una plateale denuncia sulla situazione di Gaza che la reale intenzione di giungere a Gaza con i propri motori, la sponsorizzazione turca potrebbe spiegarsi solo con l’intenzione di trovare la scintilla giusta per voltare le spalle a Tel Aviv.
Ieri il primo ministro israeliano Netanyahu ha definito quelle navi “ostili e piene di terroristi” perché, come dimostrato dai video diffusi dall’ufficio stampa dell’IDF, su una delle sei navi vi erano dei gruppi di violenti armati di coltelli, bastoni, spranghe di ferro e granate. Inoltre, da alcuni video recentemente diffusi sulla rete, sembrerebbe che alcuni tra gli attivisti uccisi avessero giurato di voler diventare dei martiri.
L’importanza di affermare che alcuni degli attivisti fossero dei violenti (probabilmente vicini ad Hamas) e i primi ad usare violenza attaccando i soldati israeliani scesi dagli elicotteri, non deve far perdere il punto focale della situazione: l’azione delle forze israeliane ha reso evidente quanto il governo di Tel Aviv sia cascato nella provocazione turca, perdendo un alleato, rovinando ancora di più la propria immagine nel mondo e regalando consensi ad Hamas.
A prescindere dalle persone rimaste uccise, la gravità degli effetti negativi che ricadranno su Israele dopo il raid sulla Mavi Marmara sarebbe tale da ritenere necessario trovare un responsabile politico; e poiché l’arrivo della flotta umanitaria era prevista da tempo e l’operazione di abbordaggio era stata preparata dall’esercito israeliano e approvata dal ministro della difesa (ed ex capo dell’IDF intelligence, ex primo ministro, ex capo delle forze armate), Ehud Barak, e da un piccolo gruppo di ministri (tra cui lo stesso primo ministro Netanyahu), sembra facile comprendere su chi debba ricadere la responsabilità politica.
Sul quotidiano israeliano Haartz, il giornalista Amos Harel, uno dei più famosi esperti di difesa, ha definito l’azione “un totale fallimento, in quanto non è riuscita a prendere il controllo del convoglio riducendo al minimo i danni sulle reazioni internazionali”.
L’operazione sarebbe stata un fiasco per vari motivi. Prima di tutto perché essa è avvenuta in acque internazionali, dove l’assalto di navi battenti bandiera straniera potrebbe essere interpretato come un atto di guerra o pirateria. Su questo il diritto internazionale ammette l’eccezione delle acque internazionali limitrofe alle acque territoriali e solo per motivi di contrabbando o di grave pericolo di sicurezza, ma per evitare un primo elemento di tensione l’esercito israeliano avrebbe potuto aspettare che le navi entrassero nelle acque territoriali israeliane o di Gaza.
Se è vero che ci si aspettava di incontrare dei pacifisti e che su cinque delle sei navi l’abbordaggio è avvenuto in modo pacifico, è anche vero che quella di non considerare l’ipotesi che tra i 600 attivisti della Flotilla ci fossero dei violenti – come accade spesso nelle manifestazioni in Europa – è stata una grave svista da parte dei vertici militari e governativi israeliani.
Questa mancanza ha esposto ad un pericolo reale i soldati israeliani che, giunti a bordo della Mavi Marmara scendendo uno alla volta dagli elicotteri dando la possibilità ai violenti di pestarli senza rilevanti difficoltà, sono stati costretti a sparare per legittima difesa in circostanze delicate per gli equilibri internazionali: civili (anche se armati di spranghe metalliche e coltelli) a bordo di una nave battente bandiera straniera su acque internazionali.
Israele è oggi un paese sotto choc, sconfitto moralmente e desideroso di giornalisti capaci di spiegare al mondo che la strage altro non era che un tentativo di legittima difesa. Come internet in queste ore, ieri sera anche la città di Tel Aviv si è divisa tra cortei di cittadini israeliani convinti della legittimità dell’operato delle forze armate e del governo, e altri che invece ritengono le autorità governative e militari le uniche responsabili della strage e delle sue conseguenze.
Ieri Meir Deganil - capo del Mossad, i servizi segreti israeliani per l’estero - ha dichiarato alla Knesset, il parlamento israeliano, che “la Turchia ha una visione strategica della sua politica, e vuole restaurare una supremazia turca nell’arena internazionale avanzando in un corridoio islamico”.
Questo rende evidente che pur conoscendo i rischi a livello internazionale, il governo israeliano ha ritenuto di dover attuare il piano militare preparato, agevolando Ankara a voltare le spalle a Tel Aviv permettendole di percorrere agevolmente il corridoio islamico sopra menzionato.
L’attacco alla Flotilla ha innescato un aggiornamento geopolitico strategico di tutta l’aria mediorientale, che oggi appare difficile da interpretare, ma che potrebbe comporsi in due grandi future potenze regionali: Turchia e Iran, ognuna con una propria influenza sulle aree sunnite e sciite del Medio Oriente.
Israele oggi corre il rischio di vedersi maggiormente isolata internazionalmente, mentre i suoi cittadini (e gli ebrei della diaspora) quello di subire un pensante clima antisemita dovuto ad un eventuale estremizzazione delle proteste che in queste ore vengono organizzate in tutto il mondo.
Sarebbe opportuno che Israele aprisse un’inchiesta neutrale e indipendente sull’accaduto, e che il governo ammettesse la propria responsabilità tramite dimissioni motivate di tutto o parte del consiglio dei ministri. Se questo non dovesse accadere i nemici di Israele avrebbero un’altra vittoria.
Articolo pubblicato su LaSpecula Magazine il 3 Giugno 2010.