29 ottobre 2014, fotografia d’Italy
Pelle d'oca e lacrime agli occhi. È quanto ho provato guardando l'eccezionale testimonianza video realizzata da Diego Bianchi durante la manifestazione dei lavoratori delle acciaierie di Terni davanti all'ambasciata tedesca di Roma, lo scorso 29 Ottobre 2014.
Per farla breve: alcune centinaia di operai delle acciaierie di Terni si recano a Roma per protestare contro le intenzioni della nuova proprietà tedesca, la ThyssekKrupp AG, di licenziare 537 operai al momento impiegati a Terni. Sotto il controllo delle forze dell’ordine gli operai manifestano di fronte l’ambasciata tedesca.
A metà protesta un gruppo di rappresentanti di lavoratori si reca all’interno dell’ambasciata per esporre all’ambasciatore tedesco Reinhard Schäfers le proprie richieste. Dopo mezz’ora l’istituto diplomatico rilascia un documento che ufficializza l’avvenuto incontro con i rappresentanti degli operai.
Per questi ultimi la lettera non è sufficiente e decidono di spostarsi in direzione del Ministero dello Sviluppo Economico dove intendono proseguire la protesta. Nel frattempo a loro si unisce Maurizio Landini, segretario della FIOM. Ancora prima di lasciare la piazza, il gruppo di operai è caricato dalla polizia. A ordinare di caricare è un uomo vestito con una giacca di pelle, forse un commissario o un alto funzionario di polizia.
Probabilmente è stato “solo“ l'ordine sbagliato di quel funzionario di polizia, ma le parole gridate dal segretario della FIOM al momento della carica sono di una verità sconvolgente: "Questo paese esiste perché c'è la gente che lavora. Siamo noi che paghiamo le tasse pagando questi qui e quelli là [al governo], e dobbiamo essere picchiati? In un paese di ladri, di gente che evade, di corruzione, se la vengono a prendere con gli unici onesti?! La responsabilità è del governo, basta con questi scontri nel paese, basta con gli slogan, basta con le Leopolde e cazzate varie, abbiamo bisogno di lavorare!".
La mia impressione è che nonostante i tanti cambiamenti politici, sociali e culturali avvenuti in questo secolo e mezzo di formale unità nazionale, l'Italia non sia mai cambiata e sia rimasta il paese autoritario del XIX secolo.
Governi di ogni colore politico - destra, centro, sinistra, sia in periodo liberale, fascista o democratico - hanno sempre, e sempre con modi diversi, preferito basare la propria forza sulla povertà, sulle disgrazie, sull'ignoranza e sulla mancanza di consapevolezza della maggioranza, invece che su politiche lungimiranti. Se nel periodo liberale questo fenomeno è stato favorito dall’essenza stessa del liberalismo di fine Ottocento, l’autoritarismo fascista e la folle politica estera hanno mantenuto la continuità sino all’inizio del periodo democratico, quando la “dittatura” democristiana, le forti tensioni sociali e il clima di perpetua campagna elettorale hanno fatto prevalere politiche di breve termine realizzate per accontentare ora questo ora quel gruppo socio-economico.
Le classi dirigenti hanno cercato più volte di dare all'Italia le sembianze di una potenza mondiale o europea, ma i tentativi sono puntualmente falliti. Le classi dirigenti italiane si sono dimostrate incapaci non solo di realizzare politiche di lavoro – unica e fondamentale base per sviluppo economico e influenza politica internazionale – ma anche di mediare in modo “socialmente gusto” gli interessi dei vari gruppi economici. Hanno incluso discriminazioni geografiche e sociali all’interno dei propri atti esecutivi e legislativi, mostrando interesse nel migliorare le condizioni di vita solo di alcune fasce di popolazione - il nord più che il sud, le città più che le campagne, il centro più che le periferie.
L’Italia è il paese della mancata proporzionalità tra salari e tasse: bassi i primi, alte le seconde. È una regola storica e immodificabile che continua ad accompagnare intere generazioni di lavoratori e impiegati. Essa è una formula che trova la propria esistenza nella limitata capacità produttiva del paese (in particolare nella limitata capacità di produrre beni ad alto valore aggiunto) e nella necessità di mantenere basse le finanze degli italiani per far rimanere in positivo la bilancia commerciale; cause storiche, dunque, unite all’inettitudine politica e alla scarsa capacità imprenditoriale e d’investimento di buona parte dei detentori di capitale.
L’Italia, si diceva, ha sempre avuto voglia di sedersi tra i grandi. Una volontà comprensibile, desiderabile e mai veramente realizzata. In uno degli ultimi capitoli del libro “Ascesa e declino delle grandi potenze”, lo storico e saggista inglese Paul Kennedy cita una frase di Lenin in cui il leader russo riconosceva che "indipendentemente dalla politica economica intrapresa, sono gli ineguali livelli di crescita economica di alcuni paesi che portano, presto o tardi, all'ascesa di determinate potenze e al declino di altre, quindi al mutamento negli equilibri politici e militari".
Tuttavia, escluso il breve periodo del secondo dopoguerra, quando i miliardi di dollari del Piano Marshall e la ricostruzione del paese e delle sue infrastrutture causarono il “boom economico”, l’Italia non è mai riuscita a dare alla propria economia una propulsione positiva superiore a quella data dalle potenze concorrenti.
Per farlo, infatti, avremmo dovuto riesaminare la storia nazionale e affrontare questioni irrisolte dai tempi del Risorgimento, mentre i governi avrebbero dovuto adottare misure destinate a ottenere risultati di lungo periodo e non politiche alla giornata. Uso il condizionale passato perché nulla di tutto ciò è stato fatto. Si potrebbe proporre che i motivi di tale mancanza siano da individuare in problematiche di politica interna (netta contrapposizione tra partiti politici molto ideologizzati) ed estera (la Guerra Fredda e la posizione di frontiera dell’Italia nello schieramento a blocchi tipico di quel periodo), ma la Germania, che oggi è ancora una volta la locomotiva d’Europa e che più dell’Italia ha avuto una convulsa politica interna e una posizione geografica assai vulnerabile vista la sua divisione in periodo di Guerra Fredda, è la dimostrazione che in Italia è mancato qualcosa.
Non vorrei sembrare pessimista e nemmeno uno di quelli arrabbiati con il mondo e pronto ad abbracciare radicali teorie politiche ed economiche, ma se non c’è lavoro, se la migrazione giovanile Sud-Nord e Italia-Estero è tornata a crescere a ritmi galoppanti, se siamo il primo paese europeo per evasione fiscale, se siamo divorati dalle mafie, se onestà e competenza sono subalterne a sopraffazione, corruzione e amicizie; e ancora, se la politica è sempre più inconsistente, arrogante e radical chic, se migliora la sua comunicazione ma non la consistenza e se, nonostante tutto, non si ha ancora il sentore della necessità di redistribuire proporzionalmente il peso del paese ed evitare sovraccarichi sui gruppi socio-economici più deboli, significa che “l’esperimento Italia” è fallito.
Ritengo sia necessario rivedere la nostra storia nazionale, riesaminare periodi storici e fenomeni lasciati nel dimenticatoio, capire gli sbagli del passato e ricominciare da capo con una nuova coscienza, consapevoli del nostro inizio, della nostra storia, dei nostri errori e degli obiettivi che intendiamo perseguire in futuro. È un processo che parte dagli intellettuali e dalla società civile e che poi rigenererà la politica e quindi l’economia e la struttura della società italiana.
La Germania riunificata ha fatto esattamente questo: i suoi intellettuali, i suoi scrittori hanno riesaminato la storia del paese, aprendo un dibattito nazionale su unità, nazismo, Olocausto e Guerra Fredda. Il dibattito ha poi influenzato la politica, mettendo i presupposti per avviare scuse ufficiali, pagare per gli errori commessi in passato e avviare un processo di rinnovo, con nuovi punti di riferimento e obiettivi per il futuro.
In Italia tutto questo non è mai accaduto. Abbiamo avuto esperienze coloniali, adottato le leggi razziali, inviato dei treni ad Aushwitz, e oggi, in un periodo storico in cui sperimentiamo l’immigrazione e la progressiva nascita di una società italiana multi-etnica, facciamo ancora finta di niente - nonostante le recenti derive xenofobe e razziste.
Il passato coloniale, il razzismo e l’immigrazione sono solo tre dei temi su cui è doveroso aprire un dibattito nazionale per ridurre gli scheletri nel nostro armadio. Tre temi in compagnia di molti altri: la conquista del Sud Italia, i motivi dell’Unità d’Italia, il Brigantaggio, la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, le contrapposizioni tra classi, il fascismo, l’industrializzazione, la mafia, i rapporti con gli Stati Uniti, i rapporti Stato-Mafia, il terrorismo nero e quello rosso, le stragi di Stato, l’estrema fidelizzazione politica, i tentati golpe, i rapporti con il Vaticano, il berlusconismo, ecc.
Continuare con “l’esperimento Italia” senza alcun cambiamento sarebbe accanimento terapeutico, la reiterazione di quella mentalità e di quella politica che in vari periodi storici ha voluto un’Italia grande (in Europa, nel mondo, in guerra, in economia, in politica estera) senza migliorare i rapporti tra i vari gruppi socio-economici del paese, senza redistribuire equamente gli sforzi tra questi, senza avere una base forte e solida sui cui costruire un grande paese.
A Roma quel 29 ottobre 2014 il sindacalista picchiato insieme ai suoi operai ha tragicamente affermato la verità. Lo penso non per voler sposare la tesi di un sindacalista e sembrare progressista o chissà cosa, ma perché quelle parole hanno fotografato la realtà storica e attuale di un’Italia che ha tradito Giuseppe Mazzini e che così com’è non merita di esistere.
Alessandro Di Maio
Gerusalemme, 22 Novembre 2014
Foto: Poster dei transatlantici italiani anni 30'