#1 - Una notte nel deserto di un Egitto al bivio
È notte. La corriera corre veloce sull’unica strada asfaltata che attraversa il Deserto del Sinai. Moustafà è l’autista, un vecchio egiziano del Cairo con la pancia gonfia e i baffi ingialliti. Le sue mani sfiorano lo sterzo, e le dita tengono il ritmo monotono della musica coranica gracchiata ad alto volume dalla radio di bordo.
Circondati dall’oscurità gelida della notte del deserto, quattordici uomini e una donna mi accompagnano in quello che è l’unico convoglio civile autorizzato dalle autorità militari egiziane ad attraversare la Penisola del Sinai e giungere a Taba, al confine israeliano.
Poche settimane prima, un gruppo terroristico locale apparentemente collegato ad al-Qaeda, ha sparato dei razzi contro la città israeliana di Eilat, situata sul Golfo di Aqaba, al confine tra Israele, Giordania ed Egitto. Da allora, l’esercito egiziano - che dalla caduta del presidente Hosni Mubarak tiene le redini del più popoloso paese arabo musulmano - ha rafforzato la propria presenza sul territorio e limitato il movimento notturno di mezzi civili a lunga distanza.
La partenza dal Cairo è stata difficile. La compagnia statale degli autobus East Delta è in sciopero da giorni, e trovare Moustafà e la sua corriera privata è stata una vera fortuna. “Siamo partiti perché i militari dei checkpoint mi conoscono, sanno che non ho nulla a che fare con al-Qaeda o con i beduini del deserto”, mi aveva assicurato alla partenza l’autista.
Adesso, attraversato il Canale di Suez, siamo i soli esseri umani nel raggio di ottanta chilometri, tutti accovacciati su noi stessi e avvolti da coperte di lana per resistere al freddo della notte.
Le nazionalità sono le più diverse: egiziani, libici, palestinesi, giordani. C’è anche un muratore filippino diretto in Arabia Saudita, quanta strada che ha da fare!
L’unica donna a bordo è giovane e bella. Si chiama Amira ed è la cugina di Ehab, un egiziano di venticinque anni che ho conosciuto alla stazione di partenza del Cairo. Mi ha raccontato della Rivoluzione, del lavoro nella farmacia del padre, del fratello che studia a Londra, ma sulla cugina ha preferito tacere.
A bordo sono l’unico occidentale e come tale ricevo sguardi genuini e curiosi da parte degli altri. Alle occhiatine mi ha abituato il Cairo, dove dalla rivoluzione non s’intravedono occidentali, turisti e viaggiatori – tutti spaventati dalla violenza di questi ultimi due anni.
Quei pochi che ci sono – ed io ne ho visti solo nove, esclusi i diplomatici e cooperanti internazionali – subiscono la diffidenza dei locali: non per odio o astio, ma per il timore di essere considerati collaborazionisti di eventuali spie.
Dalla rivoluzione, le strade del Cairo si sono riempite degli agenti dei servizi di sicurezza egiziani. Lavorano in incognito, osservano, fanno domande, utilizzano informatori, arrestano, torturano. Non sono mancate nemmeno le violenze di gruppo che alcuni tra i rivoluzionari di Piazza Tahrir hanno riservato a chi indicavano come spia: americani, israeliani, ebrei, giornalisti, donne dai capelli biondi. Rappresentativo è il caso di Lara Logan, giornalista sudafricana dell’emittente televisiva americana CBS, accusata dalla folla di essere “una puttana ebrea” e “una spia israeliana”, e per questo malmenata e quasi violentata da una marea di uomini riuniti a Piazza Tahrir per festeggiare la caduta di Mubarak.
Tra le montagne rocciose del Deserto del Sinai, in un’atmosfera surreale, dove gli scossoni dovuti alle buche della strada sono gli unici elementi a riportarci nella realtà, tutto questo pare distante.
La percezione è che il Cairo, con le sue luci e i suoi rumori, con i suoi edifici coloniali e le sue fogne a cielo aperto, con le sue immense moschee e i suoi grattacieli, sia un paese diverso, staccato dal resto dell’Egitto.
Procedendo verso est incontriamo l’ennesimo checkpoint. Scendiamo. Il silenzio della notte è rotto dalle voci dei soldati e dal crepitio del fuoco con cui si scaldano. Il cielo è pieno di stelle, ed è grazie al loro luccichio che è possibile vedere le sagome dei monti. Mostriamo i bagagli ai soldati, che li illuminano con le torce. Dall’alto della torretta di un autoblindo, che sembra fermo nella stessa posizione da secoli, due soldati ci tengono d’occhio.
“Dov’è il tuo passaporto?”, mi domanda in uno scarso inglese uno di loro. Osservo i loro occhi sgranare sui timbri dello Stato di Israele. “E questi?”, mi domanda. “Sono un giornalista”, rispondo. La sua torcia punta la macchina fotografica penzolante al mio fianco. Poi, mi guarda, sorride e mi restituisce il documento. “Welcome, welcome”, dice. Gli restituisco il sorriso, mi chino a rimettere a posto lo zaino e penso che sarebbe meglio non dire di essere arrivato già da parecchio tempo.
Pur non dubitando dell’ospitalità egiziana, ho preferito non rivelare di essere diretto in Israele. Al Cairo, contrattando il posto sul pulmino, dissi a Moustafà di avere una stanza prenotata in un albergo di Taba. Non credo mi abbia creduto, ma poco importa. Gli ho promesso una mancia.
Ufficialmente, non ci sarebbe niente di male a dirlo. Infatti, sebbene il trattato di pace firmato tra Israele ed Egitto nel 1979 sia a rischio a causa della pressione politica degli islamisti e della maggioranza della popolazione egiziana - che ha sempre considerato il riconoscimento di Israele come uno schiaffo ai fratelli palestinesi – esso rimane in vigore e permette lo spostamento da un paese all’altro. Ma l’instabilità egiziana, le bande criminali, i gruppi terroristici del Sinai, l’astio generale nei confronti degli israeliani potrebbero giocarmi brutti scherzi e farmi passare per un israeliano o, addirittura, per una spia.
Moustafà parla con il sergente. Sorride, stringe qualche mano. Poi rivolto a noi esclama: “Yalla, ripartiamo!”. Il motore della corriera ruggisce. Si parte. Alle spalle torna il buio e non si vede più nemmeno il fuoco dei soldati.
Deserto del Sinai, Marzo 2012
Alessandro Di Maio
Foto satellitare della ISS Expedition 25 crew, 2010.